L’ultima cena della verità:
sgomento e pietas in Pirandello

L’ultima cena della verità: sgomento e pietas in Pirandello

Celebre, e citata da molti recensori, la geniale formula critica che Giovanni Macchia usa per parlare di Pirandello: la stanza della tortura. Ed in un certo senso si può applicare anche alla recente regia di De Fusco a Così è (se vi pare), di recente a Roma (Teatro Argentina, 3-14.4.24). Basta intendersi sul senso da attribuirle.

Ma ripassiamo prima i fondamentali. Qual è la storia ?

Un paesino siciliano e la sua opinione pubblica, pettegola ed inquieta, si agitano intorno al mistero di tre nuovi arrivati, dal comportamento fuori norma, benché tranquillo ed appartato. Anche se proprio qui sta già il primo peccato: la misteriosità. Marito e moglie vivono in un appartamento, ma la madre di lei in un altro, dove si sottrae alle visite indagatrici dei coinquilini.

La figlia e la madre poi, non solo abitano in palazzi diversi, ma neanche si vedono. Corrispondono solo da finestra a cortile, con messaggi in un cesto.

E’ il genero che è troppo possessivo ? E perché la suocera non riceve ?

Pian piano suocera e genero entrano in contatto con la famiglia del palazzo, un consigliere comunale, moglie e figlia, e poi con i vicini; e poi con il commissario ed il prefetto.

Forniscono le loro versioni dei fatti, verità contraddittorie, che si avvitano in una spirale barocca di rivelazioni e controrivelazioni. In un primo disvelamento la Frola (la suocera) dice di voler stare appartata perché ancora scossa dal recente terremoto del paese d’origine, dove persi molti parenti. Ma anche per rispettare l’autonomia della figlia. Segue la versione del genero. Frola è pazza. La moglie di lui non è la figlia, ma frutto di seconde nozze. Finge tuttavia a distanza di essere quella figlia di cui Frola non riuscirebbe ad accettare la morte. Ad un secondo giro tuttavia Frola alza ulteriormente la spirale. Lui dice che lei è pazza. Lo sa. In realtà sua moglie era finita in clinica psichiatrica per gli eccessi amorosi di lui, e ora che è tornata lui si immagina che sia un’altra, una nuova sposa, per paura che gliela riportino via. E’ lui il pazzo, e lei lo lascia fare per pietà.

Il vicinato freme. Chi è il pazzo ? Come accertare la verità ? Si potrebbe se risultasse un certificato di morte della prima moglie, dopo il terremoto. Sarebbe un dato di fatto. Ma non esistono testimonianze o documentazioni. Tutto disperso col terremoto.

Il tormento tuttavia non si placa, ed inutilmente lo suocero del consigliere, Lamberto (uno splendido e leggero Eros Pagni) esercita su tutti la sua cantilenante e beffarda ironia critico filosofica: la verità non sta nei dati di fatto; non esiste la verità; esistono le verità soggettive di ciascuno, tutte valide. Neanche io sono come mi vedo.

Questa è la stanza della tortura. Voler inchiodare la vita ad una sola verità, a delle regole, e spesso ad una norma che è la media della tradizione del sentire pubblico. La tortura è lo scontro tra regola amore e pietas.

Perché questo sembra emergere da tutte le versioni dei protagonisti: il tormento portato dalle esigenze assolute dell’amore, e la scelta, per amore, di esercitare pietosa adesione alla versione dell’altro, senza volerne sindacare la realtà.

L’inferno sono gli altri, come diceva Sartre ?

Non proprio. Non in Pirandello. Gli altri sono la tortura dell’amore, sono la ricerca del contatto con l’alterità.

L’inferno caso mai è l’opinione pubblica, quella disindividualizzazione dell’altro nella sua identità di gruppo. Quell’entità persecutoria e controllante di cui ogni potere si nutre, e che è la base di un virtuale processo costante, come in Kafka vediamo portato fino al limite del metafisico.

Ma non in Pirandello, dove il soggetto collettivo non vince come in Kafka, ma si sfrange in onde di fremente fragilità, e agisce come corpo ferito della norma, come massa di smarrimento. Ecco allora che nello sgomento della massa piccolo borghese di cui parla Pirandello (ma che può stare per l’umano intero), il pubblico specchia se stesso, così come pure tuttavia si specchia nello spettacolo sacro della passione, una specie di passione laica, quella dei protagonisti, dove la croce dei personaggi è il tormento della verità vissuta.

La regia di De Fusco – geometrica, sintetica, moderna in leggerezza – innanzitutto, nella sua nudità, dà risalto ancor più alla parola, alla logica illogica pascaliana di Pirandello, dove il cuore conosce ragioni che la ragione non intende.

E poi.

La scena è spiccatamente tripartita, con un accentuarsi spaziale del vuoto tra i tre gruppi di istanze (i protagonisti confessionali, la difesa filosofica, l’accusa di massa), e alle spalle, con una scenografia che oscilla tra i quadri metafisici di De Chirico e i vuoti derealizzanti delle solitudini di Hopper.

E questa trinità in bianco e nero (nero il palazzo a finestre vuote, da cui si vedono arrivare e svanire, come fantasmi nel vuoto, persone; bianco Lamberto, quasi coloniale; grigio quotidiano gli altri), oltre che esser spaziale, anima anche tre registri interpretativi.

A sinistra il dubbio critico, brechtiano, col registro della voce cantante e sospeso, come sospeso e leggero è il dubbio.

Talmente non ha verità Lamberto che oltre a ridere della follia altrui, ride di sé.

Bella in tal senso l’unica scena in cui solo, al centro del buio – ancor più bianco per l’evidenziazione luminosa, come una pagina bianca nel vuoto – mette in dubbio la propria identità, parlandosi allo specchio.

Al centro della trinità (spesso al microfono, e comunque incuneati nell’angolo di convergenza delle due pareti) il registro microfonato e straniato dei protagonisti, vittime e carnefici al contempo dello sgomento collettivo. Splendida soprattutto Anita Bartolucci (Frola) col suo tremulo lamentoso e sospeso. E perturbante alla fine la moglie, che a luci livide e musica crescentemente tesa, sale in scena dalla platea, come una minaccia di verità – come un Erinni, una dea vendicatrice – e con un sottovoce sospirato e stregonesco assolve tutto e tutti.

Moglie – Qui c’è una sventura che deve restare nascosta – Solo così può valere

il rimedio che la pietà le ha prestato .. La verità è solo questa. Tutte e

due le versioni sono vere. Per me io sono nessuno. Sono colei che mi

si crede

Lamberto – Ecco come parla la verità

Più tradizionale, ma vibrante, l’agitato accorato e gridato del genero, Ponza

(un onesto Giacinto Palmarini).

Ed infine – assiepati su seggiolini, quasi abbracciati – al lato destro della trinità,

gli sgomenti questuanti pettegoli, l’onda di paese, in abili cinguettii goldoniani di stupore e protesta, secondo un registro recitativo più accademico, se pur di livello.

Perché sì, come dicevo, un processo ma anche una passione Cristi, ed anche un’ultima cena leonardesca, per come è tripartito ad onde lo spazio, con un centro e due onde divergenti. Solo che, se volessimo usare una interpretazione esoterica, il positivo non sono gli apostoli, ma a sinistra Giuda, il portatore della verità che crocefigge: il dubbio e l’accettazione del destino.

E quindi ? Il Cristo ? La ierofania finale della moglie ? Lei come crocevia dei tormenti famigliari, delle verità consolatorie ? E Frola è Maria ?

Deliri da recensore, mentre sul sussurrato inquietante della moglie cala il buio, e dopo breve pausa, fioccano gli applausi.

Marco Buzzi Maresca

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Così è (se vi pare)

di Luigi Pirandello

regia Luca De Fusco

con Eros Pagni, Anita Bartolucci, Giacinto Palmarini, Domenico Bravo,

Roberto Burgio, Valeria Contadino, Giovanna Mangiù, Plinio Milazzo,

Lucia Rocco, Paolo Serra, Irene Tetto

scene e costumi Marta Crisolini Malatesta

luci Gigi Saccomandi

scelte musicali Gianni Garrera

Roma, Teatro Argentina – 3-14 aprile 2024

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