“L’invisibile che c’è”: una storia ai confini del quotidiano tangibile

Al Teatro Puccini una commedia delicata ed intensa sulle perdite familiari per la regia di Paolo Triestino.

“Tale padre, tale figlio”. E’ questa una delle battute iniziali dello spettacolo “L’invisibile che c’è”, andato in scena in un’unica anteprima lo scorso 19 marzo al Teatro Puccini di Firenze. Una frase che abbiamo sentito pronunciare tante volte e che invita a scoprire le proprie peculiarità più rassomiglianti a quelle paterne. Tuttavia siamo soliti sottolineare l’ineguaglianza che ci contraddistingue, perché l’essere differenti implica una nota di individuazione, anche se tutte le volte l’eco risuona un impulso d’orgoglio atavico, come telecomandato, ci pervade, quasi a voler enfatizzare l’origine di ciò che siamo, quell’eredità familiare che ci appartiene di diritto e verso la quale mostriamo la nostra impronta di lealtà. Questa complessa inclinazione si alimenta lentamente, si fa strada nelle curve delle nostre rotaie biografiche, fino a scalfire il nostro carattere che crescendo si mostra nella sua intima essenza, proprio quando meno ci si aspetta. Colto dallo stupore di fronte a tanta imprevedibilità e affinità, un padre sa comunque di che pasta è fatto suo figlio e di cosa ha bisogno, sa chiudere un occhio davanti ad ingenue ciance, annusa i desideri negati per timore di un ‘no’, e sa ben interpretare il senso delle più svariate manifestazioni emotive. Ma c’è un’unica croce che non osa considerare, né tantomeno immaginare, lo smarrimento straziante che la perdita della sua discendenza può arrecare. Purtroppo non ci è permesso scegliere l’epilogo del nostro destino, figuriamoci quello di un figlio! La natura dà, la natura toglie, si accettano scommesse ma l’esito finale resterà per tutti un amaro mistero.

Un tema audace che viene riproposto anche nel lavoro “L’invisibile che c’è”, scritto ed interpretato da Antonio Grosso e diretto da Paolo Triestino. Un copione vivace e dall’intessitura inattesa, dove si notano una sobria ricerca di linguaggio dalla caricatura napoletana, la linearità dei temi trattati e le originali scelte registiche. Una commedia sulle sciagure penose che la vita può infliggere a coloro che sopravvivono alle privazioni più traumatiche, dove dolore e comicità sono le facce combattenti della stessa medaglia. In questo la drammaturgia dello spettacolo rifulge di onestà, mostrandoci come due sembianze così contrapposte si possano combinare insieme, anche nell’ordinario più infelice che vede uno sconsolato e ormai solo papà costernarsi nel cordoglio per il proprio figlio, venuto a mancare da soli sei lunghi giorni. Ad interpretare questa parte, dalle sfumature garbatamente ironiche, un ricercato e coinvolgente Gennaro Cannavacciuolo che ha saputo rendere giustizia al suo articolato personaggio, regalando al pubblico in sala momenti di ammaliante vena comica tutta partenopea, concatenati ad intervalli più intensi e toccanti a cui la sua duttilità attoriale ben si presta.

Un cast omologato che ha visto sulle scene un brillante ed irriverente Antonello Pascale, un arguto Lello Radice e una composta Roberta Azzarone. Insieme a loro e al navigato Cannavacciuolo, un enfatico Antonio Grosso ha catalizzato la platea con la sua mistica presenza, intrappolato in uno spazio del palco sospeso e portatore di un grosso fardello: ‹‹Qualcuno lassù, con quella precisione, si è scordato di lui››. Una figura dall’aspetto impercettibile che nasconde qualcosa di inaspettato, all’inizio sentita come un misterioso ‹‹soffio d’aria che ogni tanto si perde nelle nostre orecchie››, per poi rivelarsi un comandamento dall’alto che inesorabilmente chiama all’appello. Un lavoro sensibile che parla con semplicità della morte ma anche della vita e riesce ad andare oltre la tragica amarezza delle assenze luttuose, nonostante ‹‹chella arriva all’improvviso e ti fotte ‘o stess››. Eppure questo spettacolo ritrae un fascino particolare dei mondi animati a cui siamo avidamente attaccati, ‹‹sti ciel ‘e notte culurat ‘e juorno››, raccontati una volta tanto con vitale umorismo e rispettoso conforto. Paradiso, purgatorio o inferno, Triestino e Grosso ci insegnano che la vita è sempre più forte delle nostre paure. Meglio prendere al volo i treni viaggiatori, simboli enigmatici di altrettanti passaggi a livello dalle fermate imposte, e godersi gli attimi, le gioie e pure i dolori prima che si dileguino in chissà quale altra stazione.

Firenze – TEATRO PUCCINI, 19 marzo 2015.

Mara Marchi

L’INVISIBILE CHE C’E’Regia: Paolo Triestino; Aiuto regia: Francesco Stella; Sceneggiatura: Antonio Grosso; Costumi: Adelia Apostolico; Scene: Alessandra Ricci; Luci: Luigi Ascione; Interpreti: Gennaro Cannavacciuolo, Antonio Grosso, Antonello Pascale, Lello Radice, Roberta Azzarone.

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