Una prima mondiale per una delle pagine più nere della storia dell’umanità.
Un’occasione unica quella vissuta da chi era al Teatro Verdi di Pisa il 22 e 23 novembre: la prima esecuzione mondiale de “Il Ghetto. Varsavia 1943” (libretto di Dino Borlone, musica di Giancarlo Colombini). “Il Ghetto”, composto nei primi anni 1960, è l’unico melodramma sulla Shoah e narra l’ultimo giorno di vita del quartiere ebraico, distrutto completamente il 16 maggio 1943. Quel giorno furono trucidati circa quattrocentocinquantamila ebrei. Il lavoro di Borlone e Colombini non è mai stato rappresentato prima, nonostante sia stato premiato da Herbert von Karajan nel 1970 con una targa d’argento al “Concorso Internazionale Guido Valcarenghi”.
Entrando in sala si è accolti da una proiezione sul sipario, la “Premessa” del libretto, in cui si legge il rapporto di Jürgen Stroop, il capo della polizia tedesca: «il quartiere ebraico della città di Varsavia non esiste più. La grande azione ha avuto termine con l’esplosione della Sinagoga di Varsavia». L’opera racconta la storia di due famiglie riunite nella medesima casa: Justa insieme al padre Samuele e al fidanzato Isacco, e Marek con la moglie Sara e il loro figlio di quattro anni, Michele. Justa ha un fratello, Feri, che si è venduto al nemico diventando agente della polizia. Il gruppo è in attesa dell’arrivo del Polacco, un loro conoscente che deve farli fuggire dal ghetto. Alla fine decideranno però di rimanere perché come afferma Isacco «il nostro posto è questo… a noi spetta il dovere di dire che un uomo è un uomo».
La prima idea di Colombini era di mettere in musica un’opera ispirata al diario di Anna Frank, ma l’angustia della soffitta non avrebbe permesso di rendere in teatro quello che più interessava al compositore: la rappresentazione delle atrocità che avvenivano fuori per mostrare «le condizioni di terrore, fame annientamento e segregazione degli ebrei… con la forza del resoconto scevro da ogni enfasi», perché qualunque intervento a commento sarebbe inutile e fuori luogo.
Il risultato finale sono un libretto asciutto, che rinuncia a qualunque enfasi retorica e utilizza un linguaggio concreto e immediato, e una partitura che sottolinea la cupezza della tragedia, anche quella interiore ai personaggi, e che, come è consuetudine del musicista, si struttura in un flusso di musica continuo con alcuni elementi tematici ricorrenti che fungono da collegamento tra le varie sezioni. La musica si abbandona a uno sviluppo melodico solo in occasione del duetto dei fiori del primo atto e di quello che conclude l’opera – entrambi tra Justa e Isacco – e in quei momenti, dobbiamo dirlo, richiama in modo troppo esplicito alcuni celebri passaggi pucciniani. In altri momenti poi vengono in mente le pagine di “Turandot” e quando il sipario si apre sul secondo atto con la scena dei tre soldati non si può che pensare a Ping, Pong e Pang (anche loro in scena all’inizio del secondo atto dell’opera pucciniana). Un fattore negativo è che per tutta la durata dell’opera la tessitura delle voci solistiche rimane relegata alla prima ottava, mettendo a dura prova i cantanti e creando un effetto spiacevole per chi ascolta.
Molto bella la scenografia di Giacomo Callari, che pur rimanendo attaccato in modo pedissequo alle rigide indicazioni del libretto (come è giusto per una prima rappresentazione assoluta) laddove gli è possibile riesce a coadiuvare in modo convincente le necessità registiche. Si sente poco la mano del regista e spesso sembra che i cantanti siano lasciati a se stessi. Laura Brioli (Sara) è molto brava scenicamente e affronta le difficoltà vocali del ruolo con sicurezza. Marina Shevchenko (Justa) riesce a sostenere in modo credibile una parte per niente facile e a risolvere bene il problema di una tessitura sempre troppo insidiosa. Convince anche Italo Proferisce (Marek), che a dispetto di qualche incertezza iniziale, riesce a recuperare egregiamente. La voce di Gianni Mongiardino (Isacco) fa sempre fatica a sorpassare l’orchestra e giungere in sala, anche quando il cantante si trova sul proscenio; Veio Torcigliani (Samuele) ha una voce possente ma un’emissione troppo ingolata e Gianni Coletta (Feri) difetta molto di appoggio e sostegno e il suo vibrato è troppo caprino e fastidioso.
Comunque sia “Il Ghetto” è un capitolo importante della storia del melodramma per il suo alto valore morale e, come ci ricorda la nipote di Colombini, per la sua capacità di far parlare l’indicibile travalicando «qualsiasi barriera linguistica, culturale, religiosa, fisica».
Pisa – TEATRO VERDI, 23 novembre 2014.
Diego Passera
IL GHETTO. VARSAVIA 1943. Dramma lirico in tre tempi. Libretto: Dino Borlone; Musica: Giancarlo Colombini; Revisione per riduzione dell’organico orchestrale: Luigi Pecchia; Maestro direttore e concertatore: Gianluca Martinenghi; Regia: Ferenc Anger; Assistente alla regia: Lorenzo Maria Mucci; Scene e costumi: Giacomo Callari; Disegno luci: Michele Della Mea; Orchestra: Arché; Coro: Laboratorio Lirico San Nicola; Direttore coro: Stefano Barandoni; Produzione: Teatro di Pisa.
Interpreti: Marina Shevchenko (Justa); Gianni Mongiardino (Isacco); Italo Proferisce (Marek); Laura Brioli (Sara); Gianni Coletta (Feri); Veio Torcigliani (Samuele); Antonio Pannunzio (Il Polacco); Antonio Pannunzio (Soldato delle SS); Vladimir Reutov (Soldato delle SS); Francesco Baiocchi (Soldato delle SS).
Foto: Massimo D’Amato.