“Gleba” di Antonio Mocciola, viaggio lucido e allucinato
tra gli schiavi del nuovo millennio

 

Tornato in scena qualche settimana dopo la “prima”, quando fu inserito nella rassegna “Scorretta” di Marco Medelin, il nuovo spettacolo della collaudata coppia Mocciola-Filanti affronta il tema del caporalato, e sfodera un titolo, “Gleba”, a metà tra ironico richiamo storico e fendente politico finto-medievale.

Se un ragazzo romano decide, su motivazioni puramente personali, di conoscere da vicino il mondo degli schiavi agricoli nella lontana (si fa per dire) Puglia, non è detto che la sua commossa testimonianza (postuma?) non sia un dolente atto civile. E’ così che Silvio Pennini, da solo in scena, si carica il serratissimo testo di Antonio Mocciola sulle spalle, e lo fa volare sotto la sferza registica di Giorgia Filanti, che non gli da’ tregua inseguendolo e braccandolo con una pila spietata, occhio di bue su una realtà mai troppo indagata.

Ci provò, anni fa, il povero Alessandro Leogrande – a cui Mocciola dedica lo spettacolo – con un libro-inchiesta edito da Feltrinelli. Ma la sua prematura scomparsa ha fatto scendere, nuovamente, una cappa di ipocrita – e colpevole – silenzio su un fenomeno da terzo mondo, o da medioevo, per citare il titolo.

Pennini, bravissimo per approccio e physique du role, lascia sul campo pomodori, gioielli e vestiti, rimanendo completamente nudo e inerte di fronte all’ultimo aguzzino, quello fatale. La carica tensiva di un testo di abbagliante e spaventoso nitore viaggia senza soste in 40 minuti che tolgono il fiato, sulle ali di una regia lucida e allucinata allo stesso tempo, appoggiata su musiche ora sinistre ora pietose verso i poveri resti che il ragazzo incontra sulla sua personale e (quasi) laica via crucis.

Uno spettacolo che lascia estasiati e sgomenti, con un malessere che si appiccica all’anima e allo stesso tempo la solleva. Teatro potente, politico, coerente e intransigente. Ce n’era bisogno.

Fabrizio Patera

 

(foto di Marco Lausi)

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