Enrico Basile, parigino napoletano
“La mia casa é dentro di me”

 

Abbiamo incontrato Enrico Basile, attore e regista napoletano, durante le vacanze in città. Da anni infatti Enrico vive a Parigi, ma non dimentica il legame con la sua terra. L’occasione é buona per fare un po’ il punto della situazione, con lui, del percorso umano ed artistico che ancora può regalare tante sorprese.

“Figlie di cagna” è stato il tuo esordio registico, tratto da un libro complesso e affascinante quale “La trilogia della città di K” di Agota Kristoff. Cosa ti ha sedotto di quest’opera e come hai realizzato la messa in scena? Dopo il debutto pre-covid è previsto un riallestimento?

Più che sedotto, direi che mi ha segnato. E’ un libro che avevo letto una ventina di anni fa e che mi ha seguito da allora come un’ombra. Si è praticamente impossessato di me. Ho adattato, insieme a Giovanni Chianelli, il primo dei tre libri di cui è composta l’opera: “Il grande quaderno”, che forse è il più bello, anche se per comprendere davvero la storia bisogna arrivare fino alla fine della trilogia. Anche la messa in scena in qualche modo è maturata fin dalla prima lettura. Certo all’epoca non sapevo che ne avrei fatto una regia, ma il testo ha vissuto in me ed è maturato con me fino a quando non ho sentito l’esigenza di separarmene per farlo vivere di vita propria.

E’ stata la mia prima regia, ma in qualche modo sapevo fin da subito tutto quello che volevo vedere, di sicuro non sapevo quale sarebbe stato il risultato finale, ma avevo già chiare dentro di me le atmosfere, la scenografia e i costumi. Poi devo dire che ho avuto una fortuna sfacciata nell’incontrare le due interpreti: Greta Domenica Esposito e Mariasole di Maio, due attrici giovanissime con un talento a dir poco mostruoso che hanno reso il lavoro “facile” e perennemente stimolante.
Un riallestimento era previsto alla fine del 2021, ma sono sorte troppe difficoltà visto anche il periodo e poi ho preso la decisione di ritornare a vivere a Parigi e quindi… Chi sa, magari lo riproporrò qui a Parigi in lingua originale visto che è stato scritto in francese. Ci sto pensando già da un pò.

Ti muovi tra cinema e teatro, qual è il tuo habitat ideale, se c’è?

Parto dal presupposto che sono si un attore, ma che dirlo mi crea sempre una sorta di agitazione interiore. Ho un’idea dell’attore così complessa e alta, che definirmi tale mi sembra un bluff. Ma volendo tralasciare questo particolare e rispondendo alla tua domanda, mi trovo senza ombra di dubbio mille volte più a mio agio di fronte alla telecamera, e recitare in francese credo mi riesca meglio che in italiano perché mi do il diritto all’errore non essendo il francese la mia lingua materna, e in questo modo mi sento più rilassato e mi lascio andare più facilmente.
Per quanto riguarda la regia, anche se sono alle prime armi sia per quanto riguarda il teatro, sia il cinema (sto finendo di scrivere il mio secondo cortometraggio), mi sento più sicuro di me in teatro, sento di percepire e conoscere meglio i meccanismi registici di quest’ultimo.
Ma ripeto, sono comunque alle prime armi, di strada da percorrere ce ne è ancora tanta prima di definirmi regista, anche se credo che la mia vocazione sia questa più che la recitazione.

Ti sei formato all’Elicantropo, cosa ricordi di quell’esperienza?

Credo di ricordare praticamente tutto di quel periodo. Cosa strana perché sono una persona che tende a dimenticare qualunque cosa, anche quelle più importanti. Credo di avere addirittura dimenticato qualche amore… ma l’Elicantropo non l’ho mai dimenticato. Dovendo scegliere il ricordo più importante, direi il premio UBU per lo spettacolo “Stanza 101”.
Dovendo scegliere quello che mi è rimasto dentro, direi l’etica e la dedizione di Carlo Cerciello, il mio maestro.
A distanza di quasi un quarto di secolo, era il 1999 quando arrivai all’Elicantropo, le lezioni di Carlo, quello che ho imparato da lui e con lui, sono presenti in tutti i lavori che faccio. Sempre.

Vivi a Parigi da tempo, come ti trovi? Quanta Napoli ti sei portato dietro?

Vivo a Parigi da due anni…per la seconda volta. Sono felice! A Parigi (e in tutta la Francia) c’è una cultura ed un rispetto per l’arte che in Italia non abbiamo. Io sono intermittent du spectacle, in pratica un’ artista riconosciuto dallo stato, e come tale, avente diritto ad uno stipendio che mi permette di vivere del mio lavoro. E poi ci sono corsi di formazione gratuiti (anche se il meccanismo è un pò complesso) per essere sempre competitivi sul mercato, per ampliare le proprie conoscenze, per migliorarsi. Insomma, la Francia dice che se sei un’artista, tu devi poter vivere del tuo lavoro, e visto che parliamo d’arte e non di un lavoro uguale a se stesso tutti i giorni, tu devi essere messo in condizione di poterlo fare. Come fai a non trovarti bene qui? Conosco molti attori napoletani che sono bravissimi, che potrebbero avere delle carriere favolose, ma che sono costretti a rincorrere secondi e terzi lavori per poter sopravvivere perché il più delle volte vanno ad incasso e gli spettacolo vanno in scena che pochi giorni. Ma come si fa? Sarà banale e ridondante dirlo, ma non è giusto. E’ un lavoro, non un hobby.
Quanto mi porto dietro di Napoli? Napoli è la mia radice, è casa, mi porto dietro tutto.

Che progetti hai a breve e medio termine?

A breve termine, a parte finire di scrivere e girare il mio secondo corto, ho in progetto di fare un bellissimo workshop di regia e scrittura cinematografica. A medio termine c’è un’idea che comincia a prendere forma, anche se non ne sono ancora troppo sicuro. E’ un’adattamento per il teatro di un bellissimo e delicato romanzo di Makine: ” il libro dei brevi amori eterni”. L’ho scoperto qualche anno fa mentre gironzolavo per Port’Alba, un colpo di fulmine a prima lettura. Ci sto pensando su seriamente.

Un tuo ricordo di Enzo Moscato

Pensando a Moscato, mi viene in mente il suo primo spettacolo che visto. Purtroppo non ricordo il titolo, sono passati più di vent’anni, ma andai a vederlo all’albergo dei poveri. Non ero mai stato in quel posto, e benché fosse un luogo affascinante, pensai che poco si addicesse al teatro. Ovviamente a fine spettacolo dovetti ricredermi.
La potenza delle immagini e il lirismo di quello spettacolo, si incastravano perfettamente con il contesto.
Quel luogo era la cornice perfetta per la disperazione dei suoi personaggi.
Ricordo che di lì a poco comprai “l’angelico bestiario” e poi un suo cd con delle canzoni napoletane interpretate in un modo bellissimo.
Je t’aggio date ll’uocchie, l’uocchie. E mo, tutt è fernuto, tutt’ o cantat è stato, nun t’avutà. Nun t’avutà…
Antonio Mocciola
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