Doppi fondi infiniti

Non è frequente vedere rappresentato Friedrich Durrenmatt in Italia, questo grande e sulfureo svizzero del secondo novecento, fertile drammaturgo e romanziere, la cui cifra è un uso dell’assurdo in chiave grottesca, oscillante tra giochi di specchi filosofemi e critica sociale. In questo caso la scelta è caduta su un suo celebre racconto del 1976, ‘La morte della Pizia’, da cui il titolo dello spettacolo andato in scena al Teatro Vittoria (Roma, 10-15 ottobre 2023). Perché poi in Italia si ami ricavare teatro da adattamenti dalla narrativa invece che da testi teatrali sarebbe discorso da farsi. Ma comunque il testo in questione si presta, avendo in filigrana sia una griglia da commedia dell’arte (il suo lato comico grottesco), sia risvolti pirandelliani, compresa, verso la fine, una certa vena didascalico sentenziante.

Vediamolo in pratica.

La protagonista, la Pizia, Pannychis XI (qui un’abile Patrizia La Fonte), sacerdotessa addetta al vaticinio nel tempio di Delfi, è crocefissa tra due corni della realtà. Da un lato ci sono le pretese del gran sacerdote, Merops XXVII, perché lei continui a vaticinare come richiesto: è sostanzialmente una questione di denaro, per lui, perché i richiedenti, più sono potenti, più pagano. Dall’altro c’è Tiresia, che pretende per i vaticini un ruolo nobile, non tanto legato ad una loro reale verità sacrale, ma alla possibilità di dirigere gli eventi e quindi la politica. Quella che resta esclusa in tutti i casi è la verità. La verità religiosa dell’oracolo, certo. Ma nella realtà, poi, una verità si produce ?

Vedremo qui il dispiegarsi del gioco di specchi pirandelliano, con derive però di più cupa violenza, tra potere e lussuria.

Torniamo tuttavia alla Pizia: vecchia borbottona sciamannata lamentosa; in ultima analisi comico macchiettistica. Così nel racconto – e ancor più qui, nella regia, che la gioca alla commedia dell’arte, nel duetto con Merops (Maurizio Palladino, che farà anche Tiresia).

La Pizia è stanca, vecchia, e non crede ai vaticini. Vorrebbe smettere, e sempre più spesso dice cose a caso, per farsi beffe. E Merops le duetta intorno, con mossette e birignao, per manipolarla e rabbonirla. Ma la Pizia – tirata dall’attrice verso un espressionismo marionettistico – è anche altro: è una persona che smotta progressivamente sempre più verso tristezza sgomento e stanchezza. Si rende conto che la morte si avvicina, e la desidera, come un’avventura. Non potrà tuttavia abbandonarvisi prima di aver attraversato tutta una serie di pesanti visioni-agnizioni portate dalle ombre dei morti, che la costringono a sentirsi responsabile, e a portare il peso interiore delle conseguenze di quello che le era sembrato solo un gioco assurdo.

Lei non ricorda inizialmente la profezia fatta ad Edipo, ma è costretta a fronteggiare il ritorno del rimosso. Se tuttavia è stata lei a innescare il meccanismo, il reale supera la fantasia. Così le ombre in successione – Edipo, Giocasta, la Sfinge – portano rivelazioni a onde. Prima che Edipo sapeva, e giacque con odio con la madre. Poi che Laio era castrato ed omosessuale, ed Edipo figlio di una guardia, e che Giocasta molto puttana (anche lei sapeva di aver giaciuto col figlio, il cui eros reputava meraviglioso), non si era impiccata, ma lo era stata da una guardia gelosa.

Poi che Laio aveva fatto stuprare la Sfinge (figlia sua avuta prima della castrazione) da una sua guardia, per avere un erede, e che il figlio di lei, anch’esso di nome Edipo, era stato da lei sostituito all’Edipo neonato di Giocasta, dato in pasto ai leoni.

E quanti altri Edipi potrebbero saltar fuori ?

E quindi, cosa ha messo in moto veramente la Pizia ?

E in questo groviglio di caos violenza lussuria c’è poi la questione del potere. Le profezie su Edipo sarebbero state volute da Creonte per prendere il trono a un Laio senza eredi.

E Tiresia voleva bloccare questo con le sue profezie. Lui credeva di controllare il mondo con la ragione, ed evitare la tirannia. Ma la sua ragione è stata ancor più inefficace della natura burlona della Pizia, che comunque ha dato l’avvio alle catene del caso.

E quindi ?

Un fuoco di artificio di filosofemi, alla fine, prima di avviarsi – Tiresia e lei – a braccetto, alla morte. E prima un fuoco di fila di sorprese degne della miglior giallistica (altro genere caro a Durrenmatt).

Verità come chimera, e doppi fondi infiniti. Verità che si costruisce e decostruisce, senza requie. Come tu la vuoi, e quanto vuoi scavare. Volere e non volere vedere.

Finte, vere, diverse cecità.

Tiresia si finge cieco per tutta la vita (così la gente vuole gli oracoli). Edipo crede di vedere ciò che si pensava non vedesse, e poi si acceca: ma non si sa più perché.

Cecità del potere, cecità dell’oracolo, cecità dei fedeli e delle vittime, certo, nel dilagare del tritacarne del caso (gli dei tacciono), ma dove il motore restano potere lussuria violenza, con esiti assurdi e impotenza.

E dunque Edipo è paradigmatico, e giganteggia come oggetto e pretesto centrale: in scena oltre che nella parola, dove troneggia un quadro con la gigantografia del suo volto accecato, l’occhio sanguinante su un volto scultoreo, in bianco e nero.

Così quando le rivelazioni si fanno violente, nel buio la sua cornice si illumina di rosso sangue. Ed essendo edipo il centro di una cascata di fatti di sangue sesso e potere, è da dietro al quadro che escono le ombre a rivelare. Prima si vedono dietro – in controluce – proprio come ombre. Poi compaiono, incarnate sempre dall’abile La Fonte, che dimostra di saper gestire più registri: non solo la Pizia (tra mesta e burattinesca), ma anche la frivola e perversa Giocasta, e la tragica Sfinge, alla fine sbranata dai suoi stessi leoni.

Anche Palladino fa più ruoli: Merops, con la sua gestualità da comedia dell’arte; Tiresia, lievemente statico e mesto; ed Edipo, dove il tragico si anima un po’ nell’amplificazione del microfonato.

Bravi tutti e due, anche se lui più tradizionale nei gesti e nei toni.

In generale però un po’ statica e centralizzata la regia, di cui il quadro resta l’idea migliore – una zampata dechirichiana alla Savinio, col suo gigantismo mitologico incombente.

Il quadro con la sua centralità anima ed organizza il balletto simmetrico dei due.

In ciò elegante alla fine (con un ammiccamento al finale di ‘Tempi moderni’) la camminata di schiena dei due, a braccetto, verso il quadro (la morte), ciascuno alzando il proprio bastone a lato, figurando così le due ali aggraziate di un ‘folle volo’ in formato ridotto.

Un’operazione di civile intelligenza, e di garbata calligrafia.

Marco Buzzi Maresca

 

Scheda tecnica

La morte della Pizia’

di Friedrich Durrenmatt

Regia Giuseppe Marini

con Patrizia La Fonte e Maurizio Palladino

Roma, Teatro Vittoria, 10-15 ottobre2023

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