Dentro e oltre il buio, fiamme tremanti

Questa è e non è una recensione.

E’ un discorso su cosa possa essere il teatro, ed un discorso su uno spettacolo che mette in scena il cammino ed il dramma dell’apparire e dell’essere. Dell’essere e dell’essere visti. Voler essere visti ed il terrore di essere visti.

Per dirla pirandellianamente l’arco di tensione tra come tu mi vuoi e come ero sono sarò.

Il teatro è tante cose .. tensione, gesto oltre la lingua, presenza, voce e corpo, arena delle passioni .. ma soprattutto forma in divenire.

Ecco.

L’operazione portata avanti da Petrosino e Di Giacinto ha a che fare con la forma in divenire, con quella che Freud nel suo lavoro sui nevrotici chiamava ‘scolpire anime’.

Ma qui le anime sono scultrici di se stesse .. sia pure facilitate.

Cenerentola e il buio anaffettivo. Cenerentola e la cenere, la miseria dell’anima in cenere. Una favola lieve alla Walt Disney, ed una favola profondamente archetipica, dalle tenebre crudeli del medioevo e oltre.

Ma, insomma, di cosa si tratta ? Di Giacinto e Petrosino da qualche anno affiancano le psichiatre di Villa Giuseppina, usando il teatro come pratica di resilienza applicata agli psicotici.

Se questo è vero anche per un normale attore (o per esperienze di teatro amatoriale o scolastico), all’ennesima potenza è vero per i carcerati (e molto si va diffondendo da anni il teatro nelle carceri), e ancor più per gli psicotici. E’ vero che il teatro è il terremoto benefico del poter esprimere e dar forma all’indicibile.

Un indicibile inscritto nella loro carne dal rimosso sociale: non si può dire ciò che mi hanno fatto. Si pensi del resto a quanti anni ci hanno messo a vincere la vergogna personale e a parlare i reduci dei lager nazisti.

Tuttavia, se anche un carcerato può avere alla base del suo delinquere aspetti di fragilità personale, di base possiede una personalità solida (benché ferita), e senso di realtà e capacità di tollerare la frustrazione. Anzi si può dire che già il crimine fosse a suo modo un tentativo di ribellarsi ed essere. Quindi il teatro del carcerato può diventare esplosione di energie e verità, con risultati talora persino superiori al teatro professionale.

Non altrettanto è possibile per uno psicotico. Per lo psicotico esplodere significa implodere. La realtà che irrompe dalla sua interiorità e dall’esterno manda in frammenti il suo io. E i muri del carcere sono interiori, sono muri di silenzio e terrore. Lo psicotico se urla è perché si scompensa, non perché esprime liberatoriamente consapevoli passioni.

Lo psicotico può andare solo sottovoce, con delicatezza, preso per mano da qualcuno che garantisce e protegge i suoi confini personali.

Per lo psicotico il teatro è la reintroduzione di una madre, che ti vede, ti conduce, e ti consente di apparire, nel senso di essere ciò che sei, di prendere progressivamente forma. Ciò che va in scena è il diritto ad esistere.

Sottovoce, delicatezza, accompagnamento.

Questo dunque il senso di questa operazione, dove la profondità sta spesso da immaginare dietro, ed in scena appaiono adulti stralunati come fragili bambini.

Questo è da fare, e fa qui il teatro.

La madre da ricostituire (Di Giacinto e Petrosino, che li accompagnano per mano, e sono anche presenti in scena a suggerire, a disingorgare blocchi, ad esser compagni e fratelli che pure confessano propri bui e resilienze) – La madre da ricostituire là dove la madre vera, o l’ambiente in generale, sono stati ‘matrigna’, mi hanno cancellato, reso cenere, creatura invisibile e nascosta, che solo tra i topi (i diversi, i come me) trova amici.

Cenerentola …

Le undici pazienti che vanno in scena, aiutate dai loro ‘allenatori’ hanno fatto ciascuna un percorso per scrivere la propria Cenerentola, per mettere nella favola la propria storia.

Le storie che raccontano salendo sul palco hanno vari gradi di elaborazione, dal quasi infantile di alcune alla complessità tragico poetica di una di loro, l’unica che abbandona la traccia, e decolla per altri discorsi, che va in scena più volte, e dalle cui poesie deriva il sottotitolo ‘Dove il buio non fa più male’.

Lo chioserà a fine spettacolo Petrosino, parlando del buio che ci abita tutti, ma che conosciuto e accettato può diventare la nostra luce.

E tutte brillano infatti sul palco, fiamme tremanti del sogno, e nominano il proprio buio, la radice, per nominare e far esistere un futuro.

Accade all’improvviso, dopo che a lungo sembrano ricalcare solo il cartoon della Disney.

All’improvviso, e ciascuna di loro ci accende uno stupore imprevisto, tanto più quelle che inizialmente appaiono più rigide, bloccate, bimbe tremanti dalla voce monotona.

Del resto, lo dicevo prima, per la questione dell’esplodere della passione.

Anche l’uso dell’espressività della voce – in minore – fa parte di questo.

L’espressività è certo questione di tecnica, ma un certo grado di monotonia della voce ha a che fare pure con la necessità del controllo. Posso dire cose … Ma disaderire con la voce è protettivo. E’ come se essendoci io contemporaneamente non ci fossi, restando staccata da quello che dico.

Già tanto, quasi troppo, è esserci lassù, sul palco, presenza e parola, visibilità.

Poter essere guardata.

Eppure dalla favola germinano le loro storie, improvvise.

Cenni alle cause (in genere l’abbandono da parte dei famigliari), ma soprattutto molta speranza, molta fiducia che Cenerentola sia la strada per realizzare i sogni, ciascuno a modo suo. E si badi bene, non solo sogni personali (amore, lavoro, autonomia). Anche il sogno di un ‘sociale diverso’, ed il desiderio di crearlo aiutando gli altri, donando ciò che si è imparato.

Ogni salita al palco avviene dalla platea, perché loro sono nel pubblico, con noi, e la scenetta è preceduta da una canzone in tema, avviata da Petrosino, presente al bordo. La scena è fissa, con una sedia al centro. Molte si siedono, e vi si aggrappano. Altre, più libere, stanno in piedi. Una addirittura canta, e bene (ex attrice, prima del crollo). Due arrivano persino ad imbastire una scenetta comica, dove Cenerentola gestisce un bar, e fa lavorare le sorellastre.

Tutte poi scendono, e tornano a sedersi in platea, ai lati, da dove alla fine Petrosino farà gridare loro più volte il proprio nome. Perché esistere è avere un nome, il proprio nome.

Non si può tuttavia – proprio a proposito del nome e dell’invisibilità – non accennare al salto di consapevolezza e padronanza costituito dai versi di quella che per comodità chiamerò la ‘poetessa’ del gruppo, che sale infatti ben tre volte in scena.

Vestita in nero, bella, capelli neri, seria, sembra una donna dell’esistenzialismo francese, mentre recita con voce dolce e dark, cantilenante, il suo pensiero.

Ed il suo pensiero è una sintesi profonda, brillante e triste .. ribelle .. di tutto quanto questo universo in scena – e il loro universo pre scena – ci vuole e può dire.

Ci parla di indifferenza, di ferite perpetrate da occhi ignoranti, di obblio provocato da anime accusatrici .. E di volta in volta propone come antidoto il principe .. l’amore che si nasconde tra pareti di paura, affamate di silenzio.

Una immagine folgorante per esprimere la voglia di dire e d’amore, e la paura … “Pareti affamate di silenzio”.

E poi, il sentirsi mendicanti, ma senza rinunciare … “O mendicante .. tu ti guardi indietro .. non era vero ciò in cui credevi .. Apparenze liete ed imposti finti amori .. che a metà della vita interrompesti in tempo, adagiandoti però all’abbandono di te stesso .. con le scarpe bucate dalla tua disperazione – Prosegui al limite”

Non a caso, poco dopo le sue parole si alza un microfonato dove Lina Sastri recita i famosi versi della Merini

Io come voi / sono stata sorpresa mentre rubavo la vita, / buttata fuori / dal mio desiderio d’amore. / Io come voi / non sono stata ascoltata / e ho visto le sbarre del silenzio“

I versi della Merini sono calzantissimi, e sono del resto il frutto di una esperienza diretta di reclusione psichiatrica.

Tuttavia, per nominare la paura del nome e del comparire, e dunque misurare l’altezza di sforzo del balzo loro in scena, mi piacerebbe concludere con alcuni versi di Emily Dickinson

Io sono nessuno! Tu chi sei ? / Sei nessuno anche tu? / […] / Che grande peso essere Qualcuno! “

Certo !

Che grande peso essere Qualcuno. Ma che liberazione poter essere se stessi. Incamminarsi, magari con leggerezza.

E leggero e amoroso è stato l’applauso emotivo del pubblico

Marco Buzzi Maresca

 

Scheda tecnica

Cenerentola. Dove il buio non fa più male’

di e con

le ragazze ospiti della struttura psichiatrica “Villa Giuseppina”

con la partecipazione di Giancarlo Di Giacinto e Bruno Petrosino

regia di Giancarlo Di Giacinto e Bruno Petrosino

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