Cabaret espressionismo e nazi melò


La bambola spezzata (Teatro Sophia, 25-28.1.2024), scritto da Emilia De Rienzo, è un testo
lineare, geometrico, nella sua crudeltà melodrammatica. Mette in scena un duello dei
sentimenti tra madre e figlia: una figlia abbandonata ed una madre irredimibile.
La madre, negli anni trenta, abbandona la figlia di soli sei anni, ed il marito, per buttarsi anima
e corpo al servizio del nazismo. Entra come volontaria nelle SS, prima partecipando ad Aktion
T4 – l’operazione eugenetica di soppressione dei disabili che inaugura sperimentalmente il
genocidio – e poi prestando la sua opera nel campo di Auschwitz, dove fu parte attiva
nell’operazione di sterminio.
La figlia, cresciuta, la cerca e la incontra. Vuole capire ? Vuole staccarsi dall’orrore ? Vuole
ritrovare una madre ? Vuole sentirsi dire che le dispiace, sentirsi figlia ? Vuole poter
liberamente amare o odiare ? Vuole sanare l’insanabile ferita d’infanzia ? Un po’ tutto questo.
E’ l’azzardo dell’incontro, il coltello conficcato a rimestare nella ferita, riaprendo il sangue del
tempo che mai non passa, immobile, crocefisso alla mancanza, ad un abbandono irricevibile,
che nullifica continuamente.
Come si può esistere nel segno del rifiuto ?
Ma dicevo, un duello. L’incontro tra le due è una guerra di punti di vista inconciliabili, dove ai
falsi sentimenti egoistici della madre risponde un sempre più bruciante deserto interiore per la
figlia. Una traversata del deserto che tuttavia permette alla figlia di rinascere a se stessa.
Dismessa la speranza di recuperare ed umanizzare la madre – in definitiva, di avere una madre
– la figlia, Eva, approda ad una melanconica riflessività, nell’amarezza di un distacco che la
restituisce a se stessa.
“No, madre, non ti odio. Semplicemente non ti amo.
Non posso amarti”
Un epilogo che è l’approdo di un lungo incontro-scontro madre figlia nel disperato tentativo di
sanare questa ferita, di far sì che la madre confessi a sua volta una ferita in quel distacco, e di
sentire la mancanza ed il rimorso.
Succede ?
A sprazzi, ma anche quando in parte è, risulta più fragilità dispotica ed egoismo che vero
amore; ma soprattutto, anche nel minimo avvicinamento è irricevibile una madre per niente
pentita degli orrori a cui ha partecipato, e che proprio per quella missione di morte ha lasciato
figlia e marito.
La madre inizialmente – realtà di degrado senile o finzione difensiva – pare non riconoscere la
figlia. “Sono tutti morti”
Poi però la irride (sei vecchia), e al contempo la sfrutta. Vuole capricciosamente essere
accudita, non essere lasciata sola, e che la si chiami mamma. Non entra mai in empatia però.
Anzi attacca. “Anche tu avrai odiato gli Ebrei”. E la figlia è costretta, contorcendosi nel dolore
della memoria, ad ammettere e a ricordarsi vittima di quella educazione. Seguono momenti in
cui la madre ricorda brandelli di vita famigliare prima del suo definitivo abbandono. Ricorda la
figlia piccola, e la riconosce forte come lei, in opposizione al marito debole. La mia piccola
ariana. Peccato che la figlia ricordi che la madre, per educarla alla forza le abbia da piccola
scagliato contro dei cani. Neanche quel momento di fierezza materna può ricostruire un

legame. Da allora della madre ha avuto solo paura. Paura, mancanza e orrore. Eppure. Bastano
briciole di comunanza perché per un attimo scatti l’illusione di un possibile avvicinamento. Eva
si avvicina con pietà alla madre in trono, la fa scendere, tremante e goffa, ed iniziano nella
penombra un timido ballo, abbracciate. Ma presto la madre torna quella che era. Ora non più
in trono, ma seduta al centro, con la figlia in piedi dietro, esterrefatta, chiede ancora di essere
chiamata mamma. L’attrice, con un espressionistico urlo muto, e le mandi sulle orecchie –
proprio come nel quadro di Munch – spalanca la bocca nell’impotente e disperato tentativo di
aderire a quella nominazione che potrebbe essere solo se di sostanza. Ma è impossibile. Come
si può accettare una madre che la bambola che le donò l’aveva presa ad Auschwitz, da una
bambina ebrea mandata a morte ? Se la bambola, come ricordo feticcio, era simbolicamente il
cordone che la legava a quella iena, ora il cordone è reciso: la figlia è nata a se stessa, nel
dolore e nella solitudine, e la bambola è spezzata per sempre, con i suoi occhi vuoti nei quali
invano Eva cercava qualcosa.
E la scena di questa camera della tortura, di questo rischioso melò dell’orroroso psicodramma
nazi ? La regia di De Feo si muove tra la levità cabarettistica (in onore alla Berlino anni trenta),
il grottesco in maschera, ed una recitazione che esorcizza il rischio del patetico sopra le righe
(perché il testo un po’ lo è) ricorrendo ad uno straniamento formale manieristico in senso
buono, un recitato espressionistico che prende brechtianamente le distanze
dall’immedesimazione, rischio forte soprattutto per il ruolo di dolore della figlia, che potrebbe
stare tutto tra il gridato e il pianto. Lo spazio comunque è stato scelto di lasciarlo nudo: una
camera oscura, una dissezione geometrica del duello, dove i protagonisti sono nude presenze
tra muri neri, in un duello in gabbia. Un animale in difesa – la madre – che prima coperta da un
telo-sudario bianco, come una presenza muta, poi appare in trono su una pedana, con una
sfarzosa veste argentata, un copricapo piumato, lunghi giri di perle, ed esibisce un volto in
maschera, beffardo, ipertruccato. Una regina kitsch della negazione del tempo
“No, no, non posso avere una figlia così vecchia! Sono ancora bella, io,
e non sono affatto decrepita. Come posso avere una figlia che sembra
una vecchia ciabatta!”
Un animale in difesa la madre, ed una figlia in attacco e ritirata, che si aggira per lo spazio,
nervosa, arco teso, talora in piedi, talora usando uno sgabello come strumento di contorsioni
posturali, e che oscilla tra il dialogo frontale ed un parlato che volge le spalle alla madre.
E’ l’angolo sinistro dell’avanscena, l’angolo della memoria e di un dialogo senza contatto, un
parlare a se stessa parlando alla madre che, sulla diagonale agli antipodi, in fondo a destra,
troneggia, beffarda isterica crudele.
E’ l’angolo della memoria, della memoria e della sofferenza di una figlia messa all’angolo dalla
prigionia di un dolore d’infanzia che non passa.
Se la figlia è tutta giocata fisicamente sul movimento nervoso – arco teso di violino – la madre
in controcanto è posturalmente l’immobilità, cosa che rende più incisive le poche variazioni,
quando si alza in piedi, all’attacco, o nelle discese in scena, a marcare debolezze e illusorio
avvicinamento. L’attrice – una navigata Alessandra Ferro – gioca tutto in maschera,
marionettisticamente: prevale un gridato ruggente, a denti digrignati (la maschera della belva),
alternato a qualche rovesciamento all’indietro, occhi al soffitto, tra vittimismo e civetteria.
Per la madre il distanziamento è un tono facile da trovare. Lo impone la parte. Più arduo, e non
so se sempre raggiunto, è il momento delle sia pur lievi incrinature, dove dubbio e sentimento potrebbero trovare un varco. L’attrice, come del resto il testo, non ci si soffermano, girando velocemente a rabbia vittimismo accusa.
Più difficile è la parte della figlia. Irma Ciaramella – certo seguendo le scelte di regia – si giostra
bene nell’altalena (a brusche svolte) tra rabbia dolore ed improvvisi distanziamenti giudicanti.
Se il dolore è perfetto, e reso più di postura che vocalmente, più difficili sono rabbia e giudizio,
dove il rischio è il gridato. Talora al gridato si cede, ma prevalentemente subentrano brusche
svolte. All’improvviso l’attrice gira al registro formale. La voce vira verso i bassi, e gioca
formalmente su astratti accelerati rallentamenti e strascicati, con sarcasmo straniato, a tratti
gelido e beffardo. E’ il registro del distanziamento, come figlia e come attrice, in una stralunata
altalena a strappi.
Accanto al ‘in scena’ c’è poi la cornice.
Innanzi tutto scorre parallelo lo splendido tessuto sonoro di Adriano D’Amico, che alterna
carezze intimistiche da musica classica ad inquietanti momenti di sonorità percussiva e
persecutoria: campanelli violenti, sirene ossessive.
Ma poi c’è la cornice cabarettistica, che giustamente sta tra ironia e melanconia melò, e che
distanzia la scena in ‘presentazione’ e ‘commento’, ritualizzandola dall’esterno.
E’ il ruolo che si ritaglia Gianni De Feo, con una regia nella regia. E’ presente all’inizio, in frac,
mentre il pubblico entra, ora vicino ora lontano da Eva, come in un minuetto muto, come se da
direttore d’orchestra concordasse con lei l’attacco della partitura.
Poi compare altre due volte.
La prima volta, in tedesco, canta splendidamente Mit roten rosen – un testo del 1937, di Zara
Leander
Mit roten Rosen fängt die Liebe meistens an […] Dann schickt man rote Rosen
in ein fremdes Haus – und dann ist
L’amore di solito inizia con le rose rosse […] mandi rose rosse
a una casa sconosciuta – e poi è finita
E’ come se desse voce, con malinconia, alle false speranze della madre, ed al suo contorto e
crudele sentimentalismo. C’è appena stato il falso avvicinamento alla figlia, sulla memoria
dell’antisemitismo, e nonostante l’orrore della figlia, che ha cantato mesta Dona dona, il canto
ebraico, yiddish, sul macello, nonostante ciò la madre le chiede di non andarsene, di chiamarla
mamma, e ricorda l’amore di un tempo per il marito.
E’ una falsa malinconia, come una pietà dall’esterno per la follia della madre, che subito dopo
si scatena nel celebrare il proprio ruolo di soldato della morte, nei lager.
Per concludere, rivolta alla figlia, “Se hai sperato che avessi cambiato idea, mi dispiace doverti deludere.
Io resto ciò che ero! Ho detto la verità, tutta la verità, la verità che volevi!”
Ed ecco che allora – con un montaggio delle attrazioni – ritorna De Feo, a scolpire ‘la verità che
volevi’. Recita, pacato, il brano del toro bianco, tratto da Salon Kitty (Tinto Brass – 1976), film
ambientato in un bordello berlinese anni trenta, dove le prostitute sono spie e delatrici.
Dunque un bordello/macello, per far fuori oppositori occulti del regime nazista.
“Un grande toro bianco viene spinto nel mattatoio […] Viene spinto a bastonate dai
macellai. […] prende il gesto del macellaio per una carezza […] Il coltello entra nella gola […] schizza sul macellaio. Il sangue caldo, trionfante […] Il toro emette
un enorme sospiro […] Rantola e cade”
Dunque la madre, metaforicamente, una prostituta della morte ? Forse. Anche se da lei vissuta come una prostituzione sacra. Eros e morte.
Non resta che la dissolvenza.
La madre, tornata in trono – mentre incalzano percussioni – esorcizza inutilmente e
vittimisticamente solitudine e fantasmi. La figlia la ricopre col suo argentato sudario di morta
vivente, e pacatamente declama il raggiunto distacco. Non odio. Non amore. Impossibile.
Con tutti i suoi pregi, talvolta lo spettacolo si avvita un po’ nella dinamica ripetitiva dello
scontro che il testo propone, e talvolta rischia di essere un po’ statico, ma prevale lo scavo
scultoreo delle emozioni.
E dal silenzio finale lentamente decollano gli applausi.

Marco Buzzi Maresca

 

SCHEDA TECNICA
La bambola spezzata
di Emilia De Rienzo
con Irma Ciaramella, Alessandra Ferro, e la partecipazione di Gianni de Feo
Regia Gianni De Feo
Musiche Adriano D’Amico
Aiuto regia Sabrina Pistilli
Assistente regia Letizia NIcolas
Costumi Gianni Sapone e Roberto Rinaldi
Consolle e luci Sabrina Fasanella
Foto di scena Manuela Giusto
Grafica Umberto Cappadocia
Ufficio Stampa Andrea Cavazzini

 

 

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