Allo stesso posto

Le storie degli altri. In scena al TRAM “A lo stesso punto (però a n’ata parte)”

E’ andata in scena ieri l’ultima replica dello spettacolo “A lo stesso punto (però a n’ata parte)” e così si è chiusa, per il momento, la bella contaminazione tra il Teatro TRAM di Napoli e il Teatro 99 Posti di Mercogliano.

Parola d’ordine: contaminazione

E contaminazione è proprio la parola d’ordine da cui partire. Lo spettacolo, scritto da Paolo Capozzo e diretto da Gianni Di Nardo, è stato in cartellone dal 25 al 28 novembre 2021, regalando al pubblico di via Port’Alba un viaggio del tutto inedito tra i capolavori del teatro mondiale. Un viaggio alla fine del quale – e a dispetto del titolo – lo spettatore non si ritroverà affatto nello stesso punto in cui era prima del buio in sala poiché, calato il sipario, avrà goduto di una insolita prospettiva da cui osservare quella che i più romantici chiamerebbero “magia del teatro”.
L’interpretazione di Paolo Capozzo, Maurizio Picariello e Vito Scalia, è matura, studiata nei dettagli e, per questo, di immediata godibilità.
La storia è quella di Compa’ Prisco e Compa’ Mostino, due “zuorri”, ovvero, due maschere del teatro popolare irpino nate, ormai circa venti anni fa, dalla penna dello stesso Capozzo.

Prisco e Mostino, stanchi di essere relegati a vita negli angusti spazi della farsa dialettale, scoprono, all’interno di un teatro senza pubblico, i copioni delle più grandi opere drammaturgiche di tutti i tempi e decidono, tra mille dubbi e qualche guizzo di entusiasmo, di cimentarsi nell’interpretarle.
Beckett, Shakespeare, Eduardo: perché no? Cosa potrebbe mai impedire a due come loro, nati e cresciuti sulle assi del palcoscenico, di essere altro da quello che sono?
E’ questo che si chiedono i due compari. Ma la risposta arriva ineluttabile e tagliente alla fine di ogni incursione nei copioni altrui: sono due zuorri. E gli zuorri non aspettano Godot.

Zuorri come eroi moderni

E così, nel rutilante susseguirsi delle loro avventure, ci affezioniamo sempre di più a Prisco e Mostino i quali, nel disperato tentativo di sentirsi adeguati e all’altezza, non possono non ricordarci noi stessi, alle prese con le sfide della vita.
I nostri zuorri si riconoscono lontano un miglio: hanno abiti lisi e capelli arruffati, la barba incolta e i modi da villani. I nostri zuorri sono stereotipi e come tali vengono stigmatizzati dai personaggi che vivono negli altri copioni.
E chi non si è mai sentito vittima di pregiudizio? Chi non ha mai dovuto strappare lentamente l’etichetta che qualcun altro gli aveva cucito addosso?
Prisco e Mostino ci provano, si mettono in gioco ma hanno la sensazione – non si sa quanto reale – di ritrovarsi sempre “a lo stesso punto” seppure da un’altra parte, ossia, in un’altra storia, in un altro copione.

Un incerto destino

Non sappiamo cosa accadrà alle due maschere dopo questa avventura. L’Autore ci lascia con un dubbio e con una speranza. Il dubbio, cinico e spietato, che nessuno può veramente cambiare. La speranza, timida, che chiunque può imparare a leggere se stesso al di fuori degli schemi ripetitivi cui è abituato.
Ma lo spettacolo di Capozzo e di Nardo non si ferma alla storia poetica dei due zuorri alla ricerca di sé.
La contaminazione non è solo quella dei testi e delle maschere ma è anche mescolanza di registri, ricerca linguistica e intersezione di generi.
Mostino e Prisco sono brillanti, grotteschi, lirici e farseschi, ci regalano a piene mani il meta-dialetto irpino. Questo è frutto dello studio di Capozzo, impegnato da tempo nella costruzione della lingua di un popolo dalla straordinaria vivacità culturale. Vivacità talvolta imbrigliata dalle asperità della montagna, così simili a quelle del carattere dei suoi abitanti.

Una scenografia complice

Dunque, il regista sceglie di scandire il ritmo dello spettacolo assecondando la musicalità della lingua attraverso la purezza delle forme dei pannelli. La scenografia scelta va, infatti, illuminandosi via via che si avvicendano le storie e rivelano allo spettatore sagome di alberi dalla forte connotazione simbolica.
Mostino e Prisco inizialmente sono in un teatro chiuso, è vero, ma lo sforzo interpretativo di cui si fanno carico farà nascere, intorno loro, un vero e proprio bosco incantato.
E così, la storia di due zuorri omaggia la storia del teatro. Lo fa attraverso continui rimandi al rapporto tra testo e improvvisazione, e, tramite il teatro, omaggia la vita sempre in bilico tra il certo e l’incerto.

Alla fine, Mostino e Prisco si ritroveranno, più o meno inconsapevolmente, a fare i conti con la Commedia dell’Arte.  Già, perché l’ultimo quadro, il più difficile di tutti, li vede privi di copione. Saranno soli, alle prese con un canovaccio che dovrebbero scucire e destrutturare così come hanno fatto con i copioni dei grandi Maestri. Avranno la forza di essere abbastanza liberi da attraversare i buchi della trama? Noi che abbiamo applaudito speriamo proprio di sì.

 

Marina Salvetti

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