“Vita di Galilei”, Gabriele Lavia firma uno spettacolo “altro”

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GABRIELE LAVIA (ph Filippo Milani)

Pochi avvenimenti teatrali hanno lasciato una traccia profonda come la strehleriana Vita di Galileo , di Bertolt Brecht. A ciò contribuiva anche il momento storico. Da una parte, lo spettacolo si leggeva come denuncia del potere di manipolazione ideologica e culturale della chiesa, in una stagione non ancora dominata dalla potenza invasiva dei mass media, il comune sentire veniva plasmato dai pulpiti delle parrocchie; dall’altra, innescava un dibattito sulla non neutralità della scienza, fino a quel momento relegato a ristretti circoli di intellettuali.

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LUCIA LAVIA , GABRIELE LAVIA (ph Tommasoo Le Pera)

A vent’anni, attratto forse da interessi epistemologici più che artistici, mi ero mosso da Torino in pullman (una trasferta organizzata da un gruppo di studenti universitari), per andare al Piccolo, dove avevo scoperto Strehler e Brecht. Da allora mi erano rimasti impressi alcuni momenti: la vestizione del papa; la sinfonia di bianchi e di grigi perlacei delle scenografie; ma anche una dimensione quotidiana, vulnerabile, in cui era ritratto l’uomo Galileo. Avevo avuto bisogno di molto tempo per cogliere il significato di quello sconcertante, quasi criptico scambio di battute fra l’allievo Andrea Sarti che, avuto notizia dell’abiura, esclama: “Sventurata la terra che non produce eroi!”; cui l’anziano maestro risponde: “No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi!”.

Anche il ventenne Gabriele Lavia era partito da Torino per assistervi, e l’incontro con quel capolavoro – è lui stesso a ricordarlo – era stato determinante nella sua decisione di darsi al teatro.

Una comparazione estetica con la Vita di Galileo vista al Carignano di Torino sarebbe azzardata, oltre che scorretta. È immediato riconoscervi un omaggio affettuoso che Lavia ha voluto tributare a Giorgio Strehler, suo maestro d’adozione, ma pur nella sostanziale fedeltà al testo brechtiano, questo è uno spettacolo altro, e di non minore bellezza.

È un esempio alto di teatro di parola. È un veicolo di contenuti scientifici, storici e politici espressi con semplicità e chiarezza: spesso si dimentica che queste sono anche le caratteristiche precipue della prosa di Galilei, di una qualità letteraria che fa di lui uno dei nostri più grandi scrittori.

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GABRIELE LAVIA, MARCO PIETRASANTA (ph Tommaso Le Pera)

Di suo, Lavia ha messo il suo mestiere di teatrante di razza, nella pienezza della sua maturità professionale e artistica. Più che immedesimarsi nel personaggio Galilei, secondo i dettami della pereživanie di Stanislavskij, l’attore Lavia lo ha indossato: Galileo è Lavia, con la sua ironia pungente, così lontana dalla particolare, sorniona vis comica di Tino Buazzelli, ma perfettamente calata nel personaggio.

Se l’arredo dello studio di Galileo è una trasparente citazione delle scene allora disegnate da Luciano Damiani, nel seguito, alla purezza neoclassica di quelle luminose suggestioni palladiane si sostituisce una carnalità barocca, o addirittura, nella festa in casa del cardinale Bellarmino, la cupa sensualità di Velázquez. In questo solco, Lavia regista ha dato carne e sangue alle scene corali, popolari. Ha risolto i siparietti con strofette cantate in proscenio da tre maliziosi folletti dal timbro adolescenziale; ha scandito i cambi scena con dei fermi immagine: espedienti che interpretano in modo originale lo straniamento e la cifra didascalica della poetica teatrale brechtiana. E la famosa scena della vestizione del papa, che ricordavamo nella maestosa, algida liturgia strehleriana, qui virata in un rosso sanguigno, mostra, come un conturbante ossimoro, la nudità del successore di Pietro, oggetto di un sacro rito lustrale.

Un’incredibile schiera di attori (ventisei) segue e asseconda la lettura registica. Nell’impossibilità di nominarli tutti – e lo meriterebbero – è da citare almeno la progressiva metamorfosi di Lucia Lavia, che restituisce con credibilità il fiorire e lo sfiorire della figlia Virginia; le adolescenziali intemperanze di Ludovica Apollonj Ghetti, il discepolo Andrea Sarti bambino; la breve ma penetrante caratterizzazione di Pietro Biondi, il vecchissimo, quasi mummificato cardinale. E le quattro ore dello spettacolo corrono veloci, lasciando, alla fine, solo il dispiacere che sia già finito.

Nella Milano dei primi anni sessanta, la messinscena di quel Galileo aveva avuto una valenza culturale e politica dirompente, quasi eversiva. Credo tuttavia che, stante la palude in cui, da almeno una ventina di anni, l’offerta culturale e i mass media ci hanno fatto sprofondare, riproporlo oggi, pur attraverso una lettura diversa, sia altrettanto utile e salutare.

Claudio Facchinelli

Torino, Teatro Carignano – 20 ottobre 2015

Vita di Galileo, di Bertolt Brecht

Regia di Gabriele Lavia.

Con Gabriele Lavia, Massimiliano Aceti, Alessandro Baldinotti, Daniele Biagini, Silvia Biancalana, Pietro Biondi, Rosy Bonfiglio, Francesca Ciocchetti, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Luca Di Prospero, Giulia Gallone, Ludovica Apollonj Ghetti, Giovanna Guida, Lucia Lavia, Andrea Macaluso, Mauro Mandolini, Luca Mascolo, Woody Neri, Mario Pietramala, Matteo Prosperi, Matteo Ramundo, Malvina Ruggiano, Carlo Sciaccaluga, Anna Scola.

Musiche originali di Hanns Eisler eseguite dal vivo dai musicisti della Scuola di Musica di Fiesole: Elena Pruneti, flauto; Graziano Lo Presti, clarinetto; Giuseppe Stoppiello, pianoforte.

Scene di Alessandro Camera.

Costumi di Andrea Viotti.

Luci di Michelangelo Vitullo.

 

 

Produzione: Fondazione Teatro della Toscana / Teatro Stabile di Torino

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