Tragedia ben temperata e lampi caravaggeschi

 

Un ardimento apparentemente anacronistico quello di Alessandro Machia nel riportare in scena un testo come il ‘Torquato Tasso’, di Goethe (Roma, Teatro Tordinona – 20-22.12.2023), con il suo andamento apparentemente classicheggiante e filosofeggiante, il suo ritmo razionale, settecentesco, lento, talora arcadico persino.

Tuttavia, entrandovi, si scorgono aprirsi derive shakespeariane impreviste, nel seguire le volute della tormentata deriva di follia che lentamente irretiscono il poeta, compresso tra ambizioni, fragilità, amore impossibile ed invidie cortigiane.

In tal senso spicca nel testo, come deuteragonista dark il Segretario di Stato

Antonio, una sorta di Iago – mosso da invidia e gelosia – ma meno violento e subdolo, più indiretto, e persino lievemente ambivalente. Anzi verso la fine quasi uno Iago impietosito dalla vittima, che sente un po’ come il suo doppio, come l’incarnazione di quella spontaneità sognante e di quella fragilità fuor del mondo che a lui sono strutturalmente negate.

Del resto siamo alle soglie dell’Ottocento, dove dai romantici inglesi e tedeschi allo stesso Dostoevskij, la figura del doppio come intuizione del proprio lato inconscio, dilaga.

Ma vediamo il conflitto dei due sul nascere.

Tasso / Ho compiuto il mio dovere. Ho ubbidito alla principessa che ci vuole amici e sono venuto da te […] Il tempo e l’abitudine ti condurranno forse a chiedere con più calore il dono che rifiuti con freddezza e quasi spregi – Antonio / Gli uomini che si credono appassionati solo perché l’ardore li coglie all’improvviso considerano spesso freddo chi è moderato […] È piacevole occuparsi di se stessi, ma scavando in se stesso nessuno impara a conoscersi […] – Tasso /In questo modo non diventeremo mai amici (ma) .. […] stringimi al tuo petto […] La principessa spera, anzi vuole che io mi avvicini a te e tu a me – Antonio / Vedo che siamo troppo lontani uno dall’altro .. […] Per agire non basta la volontà. Chi giunge alla meta viene incoronato, ma non sempre il premio spetta al più degno. Ci sono facili corone, ci sono corone di ogni tipo e spesso basta passeggiare per coglierne”

Dunque Antonio disapprova l’impulsività del Tasso, ed il suo narcisismo solipsistico di poeta (occuparsi di se stessi), tutto l’opposto della sua arte diplomatica, volta a manipolare gli altri, e intrisa di autocontrollo. E ne invidia la probabile gloria poetica. Antonio infatti riceve sì i complimenti sì del Duca d’Este, per la sua missione in Vaticano. Ma il suo è un brillare nell’ombra, appartato. Non sopporta inoltre il favore delle donne nei confronti del poeta – la principessa (sorella del duca), ed Eleonora Sanvitale – che fanno a gara ad incensarlo, blandirlo, proteggerlo, immerse in una tensione amorosa sì platonica, ma al confine di un oltre mai apertamente dichiarato ed ammesso.

Così, senza mai parlar chiaro, Antonio insulta la gloria poetica del Tasso, insinuandola non meritata, ma solo frutto della protezione del duca, e certo mai all’altezza di quella dell’Ariosto.

Sembra poco, ma Tasso è fragile, e si infiamma al punto di sfidare Antonio ad un duello, da questi sprezzantemente rifiutato. Una lite che porta il duca a reprimere entrambi. Ordina al Tasso l’isolamento, ed al segretario di fare pace, e anzi di proteggere il poeta.

Tuttavia tutto ciò si inserisce in una pazienza già logorata nel duca, vittima delle continue paranoie del poeta, e che teme che lo voglia lasciare per portare la propria gloria al servizio di Firenze. Non solo. Tasso, afflitto da ansie controriformistiche, vorrebbe sottoporre i suoi scritti ad un giudizio della curia romana, cosa che potrebbe turbare gli equilibri diplomatici tra duca e Santa sede.

E qui si insinua un lento logoramento del poeta, diviso tra le due donne che se lo contendono, ed Antonio che finge di dargli saggi consigli, in realtà esasperandolo, sperando che compia qualche sciocchezza.

Tasso

Antonio vuole scacciarmi, ma non vuole mostrare che è lui a farlo […] L’arrivo

di Antonio ha distrutto in un’ora il mio destino. Attorno a me si accalcavano tutti,

adesso mi lasciano solo. Mi scacciano, mi evitano. Perché?”

Tasso oscilla tra fiducia e diffidenza, ma soprattutto si appoggia alle due donne, apparentemente amiche tra loro, in realtà in competizione per lui. E nella sua debolezza pian piano slitta nella disperazione, e per un attimo in un delirio di possesso amoroso – nei confronti della principessa, alla quale si avvinghia con intenti fisici. Una mossa che gli sarà fatale, e porterà alla segregazione nel manicomio di S.Anna, per anni. Rompere la tela di cristallo dell’amore platonico gli ha alienato la sua unica protettrice.

La regia di Machia – come sempre – è rigorosamente attaccata al testo, sia pure un po’ sfrondato di alcune lungaggini. E’ una regia severa, fondata sul calibrato crescere dello scandaglio psichico attraverso la parola, ed immersa in una cornice scenica quasi preraffaelita.

Siamo nei giardini di Belriguardo, la reggia estense di campagna, poco fuori Ferrara, ed il regista lo inscena con un tappetino erboso, con un divano al centro, e lo punteggia con dei verticali dipinti in stile medievale, tre alberi, ed i ritratti di Virgilio e Ariosto, incorniciati da una aureola luminosa, a sottolineare la sacralità della poesia. Uno stile medievale che rimanda sia alla questione religiosa, sia al sottofondo stilnovista che coniuga amore e nobiltà d’animo, quella rivendicata da Tasso, e che mancherebbe al potere, e soprattutto ad Antonio.

La recitazione parte lenta, forse un po’ paludata, all’inizio, frenata dalla natura lirica delle dissertazioni romantiche delle due donne, ma poi man mano si fa più concitata – fervente nelle donne, violenta negli uomini.

E così si va avanti per contrapposizioni a duetti, talvolta solitari, talvolta con gli altri come muti testimoni in scena, in stop motion.

Tutti bravi nel modulare il lento crescere delle del conflitto, ma certo spicca Roberto Turchetta (Tasso).

Passa tutti i toni con velocità, come veloce è il mutare delle emozioni negli instabili; rabbia, estasi sognante, deliri di gloria, sconforto e disperazione, sospetto, slanci amorosi e rinculi in fragilità piangente.

Ma sempre lucidamente razionale nell’eloquio, quasi persecutorio, amleticamente analitico. Ben conscio, disperatamente, del suo essere inadeguato alla realtà, e destinato a sprofondare nella trappola.

Il protagonista insomma giganteggia nel testo e nella performance.

E Turchetta gli dona non solo tutti i toni di voce, ma torce il corpo, cade, si aggrappa, si accascia, si erge. E soprattutto usa in certe scene finali uno sguardo sbarrato, obliquo, che ne stravolge il volto, imbestiandolo in una fissità folle.

Ma si alludeva all’inizio alla ambivalenza di Antonio, al suo essere uno Iago quasi pietoso. Non solo infatti, una volta ottenuta la sconfitta di Tasso non infierisce.

Ma nella disperazione quasi lo conforta

Antonio / ascoltami. Non sei così sventurato come credi. Difenditi. Non

abbandonarti a te stesso. […] Nell’attimo in cui ti credi perduto, confrontati

con gli altri e riconosci chi sei – Tasso / Ti appaio così debole? […] Tutto è come

prima e io sono nulla! … ma .. la natura .. a me ha lasciato parole melodiose con

cui raccontare il profondo gorgo dell’angoscia […] Nobile uomo! Tu stai dritto e

taci, io sono l’onda mossa dalla tempesta. Ma non vantarti della tua forza!

L’onda fugge, si agita, rigonfia e si infrange spumeggiando.

Un tempo in quest’onda si specchiava splendido il sole… ma ora il sole è scomparso, il timone è rotto, la barca si sfascia da ogni parte. Il navigante si aggrappa infine a quella roccia su cui credeva di naufragare”

un conforto a cui tuttavia Tasso non può cedere.

Vi sente solo ulteriore vittoria e sfregio da parte di quello che per lui è il suo nemico, e la sua frustrazione è un patetico ruggito d’orgoglio, una levata di poesia.

Ma tutto si compie, e ora è silenzio.

L’attore si accascia nelle braccia di Antonio, che come una pietà laica va a deporlo, nella penombra su un tavolo dietro cui sta una tela nera, con due grifoni dorati, simboli della tenebra del potere.

E in questo splendido controluce caravaggesco si conclude il dramma, mentre a lato, ieratica e statuaria, Eleonora si staglia come ombra della pietà.

Marco Buzzi Maresca

 

SCHEDA TECNICA

Torquato Tasso

di Johann Wolfgang Goethe

traduzione di Cesare Lievi

progetto e regia di Alessandro Machìa

con

Roberto Turchetta (Torquato Tasso)

Giorgio Crisafi (Duca Alfonso D’Este)

Martino D’Amico (Antonio Montecatino)

Alessandra Fallucchi (Eleonora D’Este)

Alessia Giangiuliani (Eleonora Sanvitale)

Project video mapping Giorgio Bertinelli

light designer Giuseppe Filipponio

scene Katia Titolo

costumi Sara Bianchi

aiuto regia Giulia Dietrich

Produzione AC Zerkalo

Con il contributo di NUOVO IMAIE e REGIONE LAZIO

Share the Post:

Leggi anche