Straniti e stranianti giochi di specchi

Questa volta il duo Deflorian/Tagliarini – drammaturghi, attori e registi
pluripremiati – è dimezzato, anche se permane la cifra stilistica di Daria
Deflorian. E del resto il distacco sta nel cuore della sua ricerca.
Così, se già con lo spettacolo ‘Quasi niente’ (2018) il duo rinunciava a stare
direttamente in scena, ora pure in scena – in ‘Elogio della vita a rovescio.Tre
storie’ (Roma, Teatro Basilica – Short theatre fest, 14.9.2023) – è un'altra,
Giulia Scotti , e alla scrittura resta solo la Deflorian.
E’ il naturale corollario di uno stile che persegue la cancellazione dell’identità a
favore di un fluire in pura voce e coscienza, in uno sdipanarsi di una nudità
silente e perplessa, come presenza interrogante.
Non ci sono veri e propri personaggi, ma ‘frames’ che si sovrappongono,
slittando l’uno nell’altro.
Anche in questo del resto Deflorian prosegue la propria tradizione. Se nei
precedenti spettacoli si appoggiava prima a Fellini (‘Ginger e Fred’) e poi ad
Antonioni (‘Deserto rosso’), qui pure lo scheletro d’appoggio sta nell’opera di
qualcun altro, e nello specifico in tre scritti della coreana Han Kang : ‘La
vegetariana’, ‘White book’, ‘Atti umani’.
Si diceva ‘cancellazione dell’identità’, ma più precisamente parlerei di una
destrutturazione per delocalizzazione e rispecchiamento. Un rispecchiamento
quasi metamorfico, fatto di teso ascolto interrogante, e di un sottile gioco di
specchi e slittamenti. Del resto il testo di partenza, ‘La vegetariana’, in tal
senso è fiabesco e surreale, ma anche estremo, sognante, poetico e
patologico. La protagonista infatti, in un rifiuto della carne che confina con un
vegetarianesimo anoressico, di distacco dalla famiglia, arriva ad un delirio
poetico di identificazione, che racconta così alla sorellina
«Io non lo sapevo. Pensavo che gli alberi stessero a testa in su… L'ho scoperto solo
adesso. In realtà stanno con entrambe le braccia nella terra, tutti quanti. Tutti a testa
in giù. Sai come l'ho scoperto? Be', ho fatto un sogno, e stavo sulla testa… Sul mio
corpo crescevano le foglie, e dalle mani mi spuntavano le radici… E così affondavo
nella terra. Sempre di più… Volevo che tra le gambe mi sbocciassero dei fiori, così le
allargavo; le divaricavo completamente… Devo dare acqua al mio corpo.»
Dunque già nel testo emerge il tema della sorellanza, che per antonomasia è
esperienza di faticosa ricerca di equilibrio fra identificazione, succubità,
competizione, differenziazione. Ma chi è la voce parlante in scena, e chi sta
parlando di quale sorella?

“ la mattina. Esco di casa. Cammino. Da sola. Le uniche persone per strada sono quelle
che aprono i negozi – Si chinano, aprono i lucchetti, e poi con le mani sollevano la
serranda […] Loro con quella azione stanno sollevando sulle spalle tutta la giornata ..
la vita .. Mentre io sto semplicemente camminando – Poi l’altro giorno, passo accanto
ad un negozio, .. la serranda è a metà .. vedo i piedi .. le gambe .. qualcuno dentro
Lo so che non posso entrare .. però aspetta .. perché non posso entrare ? […] .. ma
non lo faccio .. resto con questa sensazione addosso che mi sto perdendo qualcosa […]
Io resto fuori, ad aspettare .. Tutta la vita ad aspettare – Cosa aspetti ?
E’ per questo che si perde la sorella – Io me la vedo, lei, in piedi, davanti alla serranda
chiusa .. è mattina .. è esasperata, con le chiavi in mano”
E’ lei che non vive? E’ la sorella? La sorella lavora e lei cammina senza meta?
Identificazione o differenziazione polemica? Poi la serranda diventa l’aggancio
al libro ‘La vegetariana’, dove la serranda è nominata di sfuggita, e di lì
ossessione per il mondo coreano e per l’autrice, di cui a una presentazione del
libro apprezza il silenzio. E il silenzio apre a dissolvenze oniriche. E’ come se lei
e l’autrice fossero sole nella stanza .. e poi insieme in un passato, in montagna,
con una sorellina di nove anni che non vorrebbe tornare. Ma tornare dove, e
sorellina di chi?
“Se quella sera fossero scappate di casa come aveva suggerito lei, sarebbe stato tutto
diverso ?”
E’ lei? E’ una sorellina dell’autrice? E’ la sorellina nel romanzo?
E si ricollega alla metafora della serranda mezzo alzata di cui varcare il confine,
per vivere?
Ma poi
“E’ una giornata piovosa .. Si è vestita per andare a trovare sua sorella in ospedale ..
Si tratta di un ospedale psichiatrico. Lei si vergogna di andarci. E poi apprende
che la sorella è scappata. Come la sorellina di prima? Di quale vita stiamo
parlando?
A questo punto sembra decisamente che la protagonista in scena parli di sé. Si
definisce una persona triste, a cui piacciono le persone tristi, e dice che per
capire la violenza – la violenza in generale – bisogna leggere l’altro libro della
Kang, ‘Atti umani’, e prima ancora ‘White book’.
Ed ecco di nuovo slittamenti e giochi di specchi. Kang avrebbe avuto una
sorella morta piccola, prima della sua nascita, e che la madre le ha descritto
‘bianca come una torta di riso’. Lei dunque è una sostituzione di un lutto, e
questo si traspone nel fantasticare su un ragazzo morto nel massacro della
repressione coreana degli anni ottanta, che abitava nella casa di lei mentre lei
era altrove.

E allora Kang passa un periodo a Varsavia a scrivere un libro poetico sulle cose
bianche. Neve morte uccelli .. La tristezza di cui parlava la protagonista?
Non si sa, ma lei associa questo a delle statuine di porcellana bianca, dei
cupidi, tutti rotti, che trova al mercato, e vuole comperare. E ne esce la loro
storia. Erano tutte rotte perché venivano usate come ammortizzatori d’urto
negli imballaggi.
Poetico e straniante. Dei cupidini, l’amore, rotti in nome di cose più
importanti, come le creature rotte come inessenziali nella violenza politica?
E ora stanno al mercatino perché rinvenutane una montagna un magazzino,
abandonata per produzione fuori moda.
Una montagna di cose rotte e dimenticate, e in scena si sente microfonato
come il rumore di cocci che cadono, mentre l’attrice rovescia in scena da un
sacco un monte di farina bianca.
Il bianco del lutto del silenzio della morte della delicatezza?
Dal soffitto pendono su lunghi fili alcuni microfoni a vista, con un effetto
sacrale.
E di qui un crescendo di parole e sensazioni sull’assurdo della violenza del
massacro di Gwangju (Corea 1980) ..
” quando i soldati aggredirono i passanti spogliandoli picchiandoli caricandoli sui
camion […] e la strada si cosparse di centinaia di cadaveri nel giro di 20 minuti “
Kang reduplica la domanda che già le aveva iniettato la sorellina morta,
chiedendosi perché lei sia viva e non altri (il ragazzo della stanza). E invitata a
un ricevimento dice
“Come fate voi a divertirvi ? Come fate a ridere ? Come fate ? Con tutto quello che
succede .. i morti … Non li vedete i morti ?”
In definitiva il senso sembra essere che sì dobbiamo varcare la soglia, trovare
la festa oltre la saracinesca, vivere, ma che per essere dobbiamo accogliere in
noi il tutto, il bianco dolore, l’esistenza dell’altro. Essere teso e stranito
ascolto, nel bianco silenzio, nel tempo che si sfarina.
E i segni di scena?
Coerenti, poetici, minimali. L’attrice parla in tono dimesso, vagando qua e là,
con pochi gesti delle mani, e parlando non si sa bene a chi.
Al pubblico? A sé? Parla con un tono sospeso, interrogante, stranito. Come a
rispondere a se stessa. Man mano che la tensione cresce ci sono poi piccoli
crescendo. Talora è isolata da luci mirate, talora rotea, talora si sdraia nella
farina. Talora il suo recitato è reduplicato con eco microfonato, e il silenzio
talora è lacerato da rumori registrati: uccelli, fischi, mormorio di folla.
Tutto però sempre pausato e attonito, così che i pochi gesti irrompono e
risaltano nel vuoto silente. Con un culmine quando butta farina violentemente
contro i muri e a terra, e percuote i fili dei microfoni, che cominciano a
dondolare asincroni, come campane di chiesa impazzite ma silenti.
Una tempesta di silenzio assordante. Verrebbe, parafrasando Dostoevskij, di
parlare di ‘notti bianche’.
E il pubblico incorpora, e restituisce con civile pensante fervore d’applauso.

Marco Buzzi Maresca

 

SCHEDA TECNICA
Elogio della vita a rovescio – Tre storie
un progetto di: Daria Deflorian
condiviso con: Giulia Scotti
liberamente ispirato all’opera di: Han Kang
con: Giulia Scotti
regia: Daria Deflorian
aiuto regia: Chiara Boitani
disegno luci: Giulia Pastore
disegno del suono: Emanuele Pontecorvo
collaborazione alla drammaturgia: Andrea Pizzalis

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