Il monologo diretto da Marcello Cotugno, vincitore della II edizione del Festival UNO, in scena al Teatro del Romito di Firenze
Esistono dei modelli da seguire e dei comportamenti da evitare. Esistono gli stereotipi, secondo i quali sembra possibile distinguere con precisione una condotta deviante da una regolare. Esistono, poi, quelle regole non scritte, che ogni essere umano deve conoscere per la propria salvaguardia, che vigono soprattutto al Sud, in quei luoghi in cui delinquenza e società si intrecciano al punto da far sbiadire i netti confini della legalità. Cesare Lombroso (tra i primi criminologi) sosteneva ci fossero dei tratti somatici delinquenziali, delle caratteristiche biologiche standardizzate che permettono di individuare subito un soggetto pericoloso. Ma la realtà è ben diversa. Gianni Spezzano, autore e interprete del monologo “Patrizio” in scena al Teatro del Romito (dove l’anno scorso ha vinto la II edizione del Festival di Monologhi UNO), ci presenta un delinquente reale, uno di quei ragazzi di strada che aveva la possibilità di scegliere e che, per un caso fortuito, è entrato a far parte della malavita. Rispetto al prototipo del criminale Patrizio appare un bravo ragazzo, tutt’altro che violento. Soprattutto risulta “simpatico”. E provare simpatia per un uomo che ammazza la gente ci distacca nettamente dal senso comune.
La sua vita criminale è messa ironicamente a confronto con i cliché dei film americani, dove il boss, al pari di un eroe, è un modello da guardare e da imitare. Un esempio di forza e coraggio. Nella vita di tutti i giorni i delinquenti, invece, sono dei vigliacchi. Celano dietro la loro aggressività le insicurezze che potrebbero farli crollare da un momento all’altro. Nel mondo della malavita ciò che conta è il rispetto, quello che si deve portare ai capi e quello che bisogna conquistarsi. Al di fuori dell’ambito criminale, però, i rapporti sono tutt’altro che semplici. L’ignoranza, l’impulsività e la violenza sono elementi che non aiutano a creare relazioni stabili e durature con “gli altri”. Patrizio lo ha provato sulla sua pelle. L’unica forma di integrazione sociale a cui può ambire deriva dalla prepotenza, dall’imposizione. La scelta di far parte di un clan di camorristi entra in contrasto con i ricordi di infanzia, dove la purezza e l’innocenza di quel bambino alimentavano le speranze del padre. La figura del genitore, però, appare troppo debole, incapace di far fronte a un’autorità più grande di lui e che, inesorabilmente, conquista il suo giovane ragazzo. Manca a Patrizio l’alternativa onesta e altrettanto proficua.
Un testo intenso, che conquista per la sua semplicità e per la sua triste veridicità: narra di storie quotidiane, di giovani vite spezzate, di incontri sbagliati, di sangue e di morte. Utilizza uno stile leggero e un linguaggio comune, espressione di quel teatro di parola dove nel dialetto concentra la cultura di un popolo arreso di fronte al potere indiscusso del sistema criminale. Non è una questione di indole malvagia. L’interpretazione decisa e coinvolgente di Spezzano riesce nell’intento di far passare il messaggio: purtroppo a volte, in quelle realtà abbandonate, risulta più semplice mettersi dalla parte dei forti. Buona anche la regia minimalista di Marcello Cotugno, che richiama alcuni simboli partenopei; mentre i mobili incellofanati ricordano le scene del crimine alla CSI, ben lontane dal teatro di morte delle città vittime della camorra.
Firenze – TEATRO DEL ROMITO. 16 Novembre 2013
Mariagiovanna Grifi