NTFI2015 – “Crave”, il rito di dopo la catastrofe

CraveNello scambio frenetico, a volte singhiozzante, spesso paradossale, delle battute tra A, B, C e M, i quattro personaggi di Crave di Sarah Kane, emerge una battuta apparentemente scivolosa rispetto al serrato ritmo della drammaturgia del testo, tuttavia capace di definirne una direzione scenica: “Un orrore così profondo può essere frenato solo da un rito”. A tanti anni di distanza dalla messa in scena dell’ultimo testo di Sarah Kane, Psicosi delle 4 e 48, a ridosso delle morte dell’autrice e con una strepitosa interpretazione di Monica Nappo, il regista Pierpaolo Sepe porta di nuovo in scena un’opera della più maledetta autrice inglese del secolo scorso per la nuova edizione del Napoli Teatro Festival Italia, presentando Crave al pubblico napoletano. La scena, separata dal pubblico attraverso un’alta rete metallica, è costituita da una piattaforma vuota, delimitata nella parte finale da quattro cabine dotate di una lampada a neon e da un finestrino. I personaggi entrano nel buio, il solo rumore dei passi segnala il loro ingresso. La luce, che si accende, ce li presenta di spalle, nelle loro nicchie, forse annoiati, abbastanza frustrati, ben presto impauriti. Si voltano timidamente verso il pubblico, lo guardano, poi avanzano verso quella gabbia che delimita la loro vita scenica. Provano a fuggire, cercano una via di fuga, corrono istericamente. La scena è la trappola in cui sono inseriti. Sepe di fatto segmenta il testo in tre parti per definire, forse in maniera un poco schematica rispetto alla densità e ambiguità della scrittura, una possibile evoluzioni delle storie dei personaggi. Una prima sezione nella quale questi provano a raccontare la propria storia, che non ha necessariamente un interlocutore sulla scena. Soprattutto provano a definirsi attraverso ciò che desiderano: amore, sesso, affetto, un figlio, comprensione, calore umano, dignità. Ma falliscono. Cadono e si rialzano più volte. Un rombo assordante sottolinea questo perpetuo cadere. Si spogliano di tutto ciò che hanno, rivestendosi di nuova identità, forse nuove speranze, ma il secondo segmento del loro racconto è solo la triste narrazione di una malattia, di uno scacco, di una incapacità ad affrontare una realtà che li opprime. Un caotico fiume di bamboline lanciate contro la rete metallica e affannati e goffi abbracci tra i personaggi costituisco la seconda transizione verso il racconto della fine, in cui i quattro personaggi, stanchi e svuotati, denunciano la loro assenza, il vuoto che li circonda: “Non sento niente, niente”. La regia di Pierpaolo Sepe è molto efficace nel cogliere e sviluppare la dimensione fisica dei personaggi, caratterizzata da grande espressività e movimento: le parole costantemente si interrompono laddove la furia del corpo tenta una sfogo, che inevitabilmente ricade su stesso. Se Barbara Nativi, nella sua messa in scena di Crave del 2002, faceva esprimere i personaggi davanti ad un tavolo e a un microfono durante un tragica conferenza sulla loro vita, Sepe fa fare all’opera un passo avanti nel racconto della nostra modernità. Se Sarah Kane aveva visto in lontananza una catastrofe che stava piombando addosso alla nostra società nel suo estremo racconto teatrale, quest’ultima versione di Crave denuncia tutta la sua attualità, il suo essere ormai dopo la catastrofe, con personaggi che in alcuni punti sembrano muoversi come gli zombie di The Walking Dead. L’orrore che esce fuori da Crave ha la forza di commuovere, di far sentire a noi spettatori, ingabbiati come i personaggi, quello che i personaggi non riescono più a sentire, ma che la drammaturgia riesce a comunicare. Quel rito a cui pensava Sarah Kane, immaginando forse un sanguigno legame con il teatro della crudeltà di Antonin Artaud, è proprio il teatro nella sua dimensione di esperienza necessaria e assoluta. Per poter ancora raccontare l’orrore. Per poterlo sentire sulla pelle.

Roberto D’Avascio

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