Luigi Tenco e la mitografia di un sognatore.

Tenco foto

Si chiama Il sogno di una cosa, il suggestivo progetto teatrale di Monica Pinto e Giuseppe Cerrone dedicato alla canzone e alla vita di Luigi Tenco, cantautore troppo spesso dimenticato sia dalla critica sia dalle masse, dimenticato forse perché percepito come personaggio scomodo, sfuggente e asistematico, nel panorama melodicamente rassicurante della musica leggera italiana degli anni sessanta.
D’altronde, come poteva essere accolto dal grande pubblico, se non con diffidenza e sospetto, un cantante che, in anticipo su tutti, invece di ammiccare in modo scanzonato alla Morandi o strappare lacrime sanremesi alla Bobby Solo, provava a fare un tipo di canzone sì leggera ma differente dalle altre: una canzone meno superficiale, più anticonformista.
Del resto, non è probabilmente un caso, che il titolo dello spettacolo dedicato a Luigi Tenco rechi in sé una citazione marxista pregna di significato, essendo “il sogno di una cosa” non solo un’espressione presente nella celebre epistola di Marx ad Arnold Rouge, ma anche il titolo della prima e giovanile esperienza narrativa di Pier Paolo Pasolini, anche lui un controcorrente, un corsaro, un bastian contrario.
Ed è proprio il senso di questo sogno che Monica Pinto, Giuseppe Cerrone e Luca di Tommaso, quest’ultimo nei panni del cinico critico musicale, cercano di restituire al pubblico, inserendo anche Luigi Tenco nel Pantheon di quegli eroi, giovani, belli e sinceri che inseguono senza tregua un’ideale rivoluzionario rintracciabile perfino nella semplice bellezza di ogni giorno e nell’autentica emancipazione di ogni desiderio, di ogni incontro, di ogni esistenza.
Le parole e la musica di Luigi Tenco, allora, diventano da un lato oggetto di un vero e proprio atto d’amore, quello dichiarato di Monica Pinto per il tenebroso cantautore ed attore che “sorrideva di rado”, dall’altro si rivelano poco più che un pretesto per ricostruire l’identikit di una parte della nostra storia che, anche attraverso la musica leggera, ha provato ad immaginare una visione alternativa delle cose, una visione che, in un certo qual modo, riuscisse a coniugare la dimensione popolare della comunicazione con la responsabilità laica dell’artista che prova a sferzare un pubblico pigramente borghese a cui, tra alti e bassi, fasi d’innamoramento e repentine delusioni, dedicò – inutilmente? – cinque anni della propria vita.

Napoli, Sala Assoli, 12/03/2014 Claudio Finelli

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