La pittura di Ligabue protagonista del festival di Castrovillari

Terza puntata del reportage di Claudio Facchinelli dal festival calabrese diretta da Dario De Luca e Saverio La Ruina

piturCastrovillari, 1 giugno 2014 – Un altro luogo deputato per il dopo festival è “La sartoria”. Luogo non istituzionale, ruspante, ci si può mescere da soli un bicchiere di vino direttamente da un bag in box mascherato sotto una pezza di tela. È un basso di piccole dimensioni: vecchie travi di legno sorreggono il soffitto; in un angolo, un camino; lungo una parete, un lavatoio di graniglia. Il locale straripa di bric-à-brac e di cianfrusaglie di ogni tipo: una gabbietta per uccelli, un ciclomotore, vecchi mobili; ma un moderno lettore CD diffonde una musica discreta. Dalle travi pendono fantasiosi origami colorati. Ogni tanto, su un vecchio tavolo contadino compare un piatto con qualcosa di mangereccio: una frittata, del formaggio, del pane; in una cassetta da mercato, delle nespole e delle arance. Gli avventori stanno in strada, in piedi o seduti sui gradini del vicolo: per lo più giovani alternativi di Castrovillari e dei dintorni, ma capita di trovarci anche gli artisti del festival, con i quali riesco a parlare del loro spettacolo. Teresa Timpano, di Scena Nuda, ha appena smesso gli abiti di scena di Padre, figlio e sotto spirito, per indossare un paio di seducenti leggins grigi sulle toniche gambe da danzatrice.

Lo spettacolo non mi ha convinto, e glielo dico.

Teresa mi spiega che è il loro primo tentativo, dopo una serie di esperienze compiute al fianco di importanti maestri, di un prodotto originale. Il drammaturgo, il romano Mauro Santopietro, l’aveva concepito diversamente ma, in fase di rielaborazione drammaturgica assieme a Luca Fiorino e Filippo Gessi – anch’essi in scena con lei – lo spettacolo si era poi spostato in un’altra direzione. Ciò li aveva indotti a mutare anche il titolo, all’ultimo momento: in locandina, le parole “Padre figlio e” risultavano coperte da una riga orizzontale, offrendo al lettore un messaggio comunicativo spiazzante e non chiaro. Un deficit di comunicazione che sembra rispecchiarsi nello spettacolo stesso. Il progetto dichiarato di una metafora della violenza, della coercizione, a partire dalla famiglia, sembra essersi accartocciato su se stesso, in un coacervo di azioni fra le quali, malgrado il rigore di progettazione, si stentava a cogliere una logica, non necessariamente aristotelica, ma almeno estetica. L’efficacia di una metafora – le dico – deriva anche dalla sua ambiguità, laddove è polisemia, suggestione multipla. Qui, non l’ho trovata.

La serata era iniziata con L’anarchico non è fotogenicoa, della compagnia quotidiana.com. Scritto, diretto e interpretato da Roberto Scappin e Paola Vannoni è, come da locandina, il capitolo uno della trilogia Tutto è bene quel che finisce (tre capitoli per una buona morte). Il porgere impassibile e serioso, quasi funereo dei due attori/performer, appena alleggerito da improbabili, reiterati movimenti coreutici; il surreale, gelido umorismo, a volte quasi macabro delle battute, rimpallate come in un’astratta partita a tennis, sortiscono nel pubblico scoppi di irrefrenabile ilarità.

Ma le maggiori aspettative serata erano rivolte a Pitùr, l’ultima creatura di Mario Perrotta, prodotto dal Teatro dell’argine, con la collaborazione, fra gli altri, del comune di Gualtieri, l’ultima residenza del pittore Antonio Ligabue. Ho detto “aspettative”, perché chi aveva apprezzato Un bes, il lavoro dedicato lo scorso anno a questa figura, emblematica dell’emarginazione e della diversità, si aspettava una sorta di sequel. Perrotta, invece, ci ha spiazzato con una sorta di coreografia, ove si ritaglia una parte defilata di personaggio coro, interloquendo con altri sette performer (tre uomini e quattro donne) che manovrano a vista altrettanti pannelli sui quali si proiettano, ora immagini astratte, ora particolari di quadri del pittore. La musica spazia da Verdi ai classici contemporanei, a vecchie canzoni popolari. Ma l’invenzione di maggiore efficacia teatrale ed originalità creativa è quella in cui, sulle note ossessive di una giga bachiana, si evoca in modo trasparente ma delicato l’autoerotismo di Ligabue. Uno spettacolo che non spiega, non racconta, ma che ci restituisce poeticamente, con poche parole smozzicate in dialetto, ma specialmente con lo strumento dell’espressione corporea, la figura di Ligabue. Il progetto prevede una terza tappa, quasi utopica nella sua grandiosità visionaria, l’anno prossimo: una installazione di 800 artisti, sul Po, presso Reggio Emilia.

Claudio Facchinelli

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