“La metamorfosi”: «opera della solitudine»

Tensione, angoscia ed emozione nella riscrittura operistica di Silvia Colasanti e Pier’Alli dell’allucinata vicenda kafkiana del commesso viaggiatore risvegliatosi scarafaggio.

fotoMarcoBorrelli_06032014_0362La ripresa di un’opera lirica a distanza di pochi anni dalla sua prima rappresentazione assoluta è un evento raro. La musica contemporanea vive generalmente di esecuzioni ‘uniche’ e la decisione del Maggio Musicale Fiorentino di riproporre, in chiusura della stagione invernale 2014, “La metamorfosi” di Silvia Colasanti è coraggiosa e in controtendenza. Tratta dall’omonimo racconto di Franz Kafka, fu commissionata nel 2012 in occasione del 75° Festival del Maggio, incentrato sul tema “Il viaggio. Dalla Mitteleuropa al Sudamerica”. Ed è proprio un viaggio, seppur interiore, onirico, visionario, ma avvincente, quello in cui veniamo condotti. Un viaggio alla scoperta dell’orrore di fronte alla diversità, ma anche della rivelazione della bellezza attraverso la musica: sul finale, infatti, l’armonia del violino riesce a risvegliare l’umanità, apparentemente assopita, del protagonista Gregorio. Si esce così dal teatro con un senso di angoscia e stordimento – tutti noi potremmo diventare ‘alieni’ in un mondo che non sentiamo più nostro – ma anche con la consapevolezza che esiste una possibilità di riscatto e redenzione.

Il libretto di Pier’Alli, di estrema efficacia drammaturgica, è fedele al modello nella trama e nei personaggi. Nella prima parte viene illustrato il risveglio di Gregorio Samsa e la lenta, angosciosa presa di coscienza – del protagonista stesso, dei suoi familiari, della serva, infine del procuratore (e quindi del mondo esterno) – della sua metamorfosi in enorme scarafaggio. L’attenzione visiva e musicale è qui incentrata sul dramma del protagonista, sulla sua incapacità di compiere anche i gesti più banali (scendere dal letto, aprire la porta) e, soprattutto, sulla sua impossibilità di comunicare con il mondo esterno. Sin dal prologo lo spettatore assume come punto di vista privilegiato proprio quello di Gregorio: poco dopo l’inizio della musica affiora sullo schermo in tulle del boccascena una sequenza di visioni indefinite. Lentamente, in maniera fugace, alcune forme diventano più nitide, quasi il risveglio da un sogno: la sveglia, fogli sparsi, un quadro, immagini di un corpo. Quella che vediamo proiettata è la soggettività di uno sguardo (il nostro?) che perlustra angosciosamente la stanza e prende lentamente coscienza del proprio corpo e della sua trasformazione. Irrompe una voce. Non quella di un attore in scena, ma una voce suadente, lontana – quella del bravissimo Edoardo Lomazzi – suono di pensieri che stentano a prendere forma. A questa se ne sovrappone un’altra, anch’essa indefinita, quasi un eco di voci interiori che dialogano tra loro – quella del coro del Maggio. L’una e l’altra, provenendo da un imprecisato fuoriscena, avvolgono noi, pubblico in sala, e amplificano la nostra sensazione di vivere, sentire, percepire i pensieri di Gregorio. Intanto, sul palcoscenico, le emozioni del protagonista sono mute e il personaggio si esprime solo attraverso il linguaggio del corpo, quello dello straordinario attore-danzatore Fabrizio Pezzoni. E il bellissimo effetto della polifonia della voce di Gregorio, quella umana e la nuova, quella animale, è tra le intuizioni migliori di quest’«opera della solitudine», come la compositrice stessa l’ha definita.

Nella seconda parte la lente di ingrandimento si allarga sull’intera famiglia e, come in un trattato di entomologia, i sentimenti vengono sezionati microtomicamente. All’inizio Gregorio è ancora il loro ‘caro’, pur con significative differenze, opportunamente rese anche a livello vocale e musicale: l’addolorata sofferenza della madre, la fragile compassione della sorella, l’indignazione del padre. Ma l’affetto si trasforma presto in odio. E il riferimento all’entomologia non è stato casuale. Sulla scena si scontrano due mondi incomunicabili, entrambi claustrofobici e separati da un grande muro mobile, che allarga o restringe gli spazi a seconda del punto di vista. La sensazione è che la dimensione ‘umana’ sia quella della stanza di Gregorio, mentre il resto della casa sia il nido dei veri scarafaggi. Una percezione rafforzata dai costumi, tutti nelle tonalità del verde virato al grigio: asparago, olivastro, cinabro, palude, mimetico. Straordinario quello del padre: giudice implacabile, indossa una livrea da usciere di banca, che evoca, nel contempo, una divisa militare.

Nel finale il mondo esterno irrompe nel microcosmo familiare e l’odio non può che esplodere in follia e in tragedia. Gregorio è ancora in grado di emozionarsi di fronte alla musica del violino di Rita e urla disperato, svelando agli ospiti la propria esistenza. Il rifiuto dei familiari, che rinnegano con forza la sua ‘umanità, e le percosse del padre non possono che condurre Gregorio alla morte. La famiglia è finalmente libera e, mentre la governante sta ancora spazzando quel che resta della ‘bestia’, si avvia verso una spensierata e ciarliera gita fuori porta. In loro è avvenuta una significativa trasformazione: visivamente sono ringiovaniti, hanno abbandonato gli abiti logori per altri più eleganti, vivaci, rispettabili, ma le loro voci sono diventate incolore. Gregorio è libero, i morti sono loro.

L’accuratissima regia di Pier’Alli, al pari delle scene e dei costumi, non lascia nulla al caso. La recitazione e i movimenti in scena sono studiati sin nei minimi dettagli. Più che apprezzabili i potenti ‘fermo immagine’ durante i quali, grazie anche all’utilizzo delle luci, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un quadro.

Dal punto di vista musicale la scelta del ridotto organico orchestrale – ottavino, flauto, oboe, clarinetto in Si bemolle, fagotto, corno in Fa, percussioni e archi – è funzionale alla resa dei sentimenti. Il loro effetto timbrico sottolinea l’angoscia e il terrore dei personaggi. La bravura del direttore Marco Angius, esperto interprete di musica contemporanea, rende il flusso ininterrotto della musica della Colasanti, ne sottolinea gli aspetti più teatrali, la timbrica scarna, ma efficacissima.

Per quanto riguarda il cast confermati tutti i cantanti già nello spettacolo del 2012, ad eccezione di Stefano Consolini, sostituito da Roberto Jachini Virgili nella parte di Ospite I. Una compagine affiatata che riesce a restituire tutta la potenza del dramma. Roberto Abbondanza è un padre austero e autorevole. La bravissima Gabriella Sborgi ha un’intensa espressività scenica e vocale e comunica in maniera commovente i sentimenti della madre addolorata. Accanto a lei Laura Catrani ha una vocalità ricca e affronta con disinvoltura un ruolo impegnativo per le variazioni richieste.

Firenze – Teatro Goldoni, 13 marzo 2014

Lorena Vallieri

 

LA METAFORMOSI di Silvia Colasanti, opera della solitudine in tre parti.

Libretto di Pier’Alli, tratto dall’omonimo racconto di Franz Kafka. Direttore: Marco Angius; regia, scene, costumi e ideazione video: Pier’Alli; luci: Pier’Alli, Luciano Roticiani; maestro del coro: Lorenzo Fratini.

Interpreti. Gregorio Samsa: Fabrizio Pezzoni (azione scenica), Edoardo Lomazzi (voce), coro del Maggio Musicale Fiorentino (altra voce); La sorella: Laura Catrani; La madre: Gabriella Sborgi; La governante: Tiziana Tramonti; Ospite I: Roberto Jachini Virgili; Ospite II: Daniele Zanfardino; Il padre: Roberto Abbondanza; Il procuratore / Ospite III: Michael Leibundgut; orchestra del Maggio Musicale Fiorentino.

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