Siamo a Roma, oggi, tra festini, vip e timidi slanci dell’anima, dove uno scrittore ha perso la sua arte, e anche un po’se stesso.
“La grande bellezza” è stilisticamente ineccepibile e tecnicamente inattaccabile, con un ottimo cast, una grande eleganza nello sfoggio dell’immagine e una splendida fotografia. Se non si stesse parlando di un film di Paolo Sorrentino, si potrebbe sostenerlo pacificamente, e gioire dell’aver trovato un altro regista italiano (quasi) alla sua altezza, che spinge intrepido il piede sull’acceleratore per arrivare a creare pura arte cinematografica.
Ma è proprio sulla parola ‘arte’ che bisogna soffermarsi: ‘la grande bellezza’ è un’opera d’arte ibrida, slegata, fatta di episodi, che presi da soli significano molto, visti uno dopo l’altro, molto poco. Sorrentino sa e vuole seguire le orme di Fellini, ma questa volta non riesce a dare quella stessa sensazione di placido delirio che ipnotizza, sente il bisogno di spiegare, e allora tra uno splendido e terribile quadro in movimento e l’altro, spuntano gli aforismi del protagonista, che cerca in qualche modo di far capire cosa prova e dove sta andando. La cosa da un lato toglie poesia, dall’altro potrebbe aiutare il pubblico a capire dove lo si stia portando, se non fosse che il personaggio di Toni Servillo (Jep Gambardella, scrittore che non scrive), non va proprio da nessuna parte, il suo stato emotivo non cambia, il suo vivere non si evolve, (se non alla fine).
Si racconta in maniera troppo lineare una storia che non lo è, non c’è scontro, non ci sono differenze, persone o desideri opposti, non c’è guerra, neanche psicologica, non c’è catarsi, ci si potrebbe perdere come in un sogno però, e sarebbe altrettanto bello, se non fosse per le continue spiegazioni che riportano immediatamente lo spettatore sulla terra, nella sala cinematografica, e allora si torna a notare la bellezza delle immagini o la bravura degli attori. Ci si allontana dal protagonista, che nella sua indolenza sembra non avere e non volere nulla, e ci si avvicina agli altri personaggi, piccoli schizzi d’autore comici e commoventi, che riescono a raccontare molto di più del personaggio principale.
Si potrebbe dire che questo succede anche perché ‘Jep Gambardella’ è un antipatico, un cinico, un freddo e un decadente, in definitiva un antagonista, ma Sorrentino e Servillo ci hanno raccontato storie meravigliose di ‘antagonisti’ molto più ispidi e tetri di Gambardella, e in quei film, mentre li si vive, ci si accorge a malapena del valore tecnico della pellicola e delle performance attoriali, perché si è intenti ad amare uomini odiosi, e si resta aggrappati alle spaventose montagne russe emozionali costruite dal migliore regista italiano degli ultimi 20 anni. Sorrentino è un temerario di grandissima sensibilità, il primo che abbia fatto capire all’Italia – definitivamente – che una strada diversa da quella strabattuta del vecchio e polveroso neorealismo si può percorrere con successo. Questa volta la sua arte, fatta di dolci e lunghe carezze e d’improvvisi schiaffi emotivi, si è solo intravista, a sprazzi, ma i piccoli lampi di genio che illuminano anche l’ultimo quadro di questo grande artista valgono, in ogni caso, molto di più delle arroganti pellicole d’autore, o dei film da box-office che invadono la medio-bassa stagione cinematografica.
Elisabetta De Luca