“Ivanov” e la rilettura anti-stanislavskiana di Filippo Dini

“Ivanov” non è un’opera minore, ma più semplicemente un’opera giovanile di Čechov. Certo un testo poco rappresentato, in paragone ai quattro capolavori cui Anton Pavlovič aveva dedicato l’ultimo periodo della sua breve vita. Lo scrive a ventisette anni, e ne passeranno altri dieci prima della stesura de Il Gabbiamo, il testo che, anche grazie al felice incontro con Stanislavskij, gli darà fama e notorietà europea.

A seguito della pubblicazione del racconto lungo La steppa, accolto con grande successo, gli era stato conferito il prestigioso premio Puškin, ma era la prima volta, a parte il monumentale – e irrapresentabile – Platonov, che Čechov si cimentava con un testo teatrale, articolato secondo la tradizione ottocentesca.

Filippo Dini, regista e anche interprete, assieme ad una affiatata ed efficace squadra di attori, vi si è dedicato con passione ed attenzione. Nel testo sono evidenti i segni premonitori di quel volger di pagina della storia che, diversamente sviluppati, ritroveremo in Tre Sorelle, fino alla loro  sublimazione nella impalpabile poesia del Giardino dei ciliegi. Ma la regia vuole evidenziare anche un’inquietante assonanza con la crisi esistenziale del presente, vissuta con particolare scoramento dalla generazione degli attuali quarantenni, che hanno visto cadere valori che si ritenevano consolidati, che hanno perso la speranza e la curiosità, la capacità di sognare, di progettare.

La sua lettura dell’Ivanov prende le distanze da quella tradizionale stanislavskiana, intessuta di pause di sospensione (un’impostazione che peraltro Čechov non condivideva, e si dice cancellasse con un tratto di penna i puntini aggiunti sul copione): gioca sulla leggerezza, sulla comicità. Sceglie invece di utilizzare, con felice effetto spettacolare, l’espediente drammaturgico dei fermo immagine, o dei ralenti.

Lo troviamo in alcune – poche – licenze che Dini si prende sul testo originale. La morte di Anna, qui  avviene in scena, con una lunga sequenza puramente mimica, che amplifica la tarda, disperata resipiscenza di Ivanov, dopo che ha crudamente rivelato alla moglie la prospettiva della prossima morte.

Nello stesso modo il colpo di pistola finale, retaggio di una tradizione teatrale della quale Anton Pavlovič si libererà presto (non per nulla preferirà infatti indicare le sue opere teatrali, non come “drammi”, ma “commedie”, o addirittura “scene di vita campestre”), viene in qualche modo attutito, svuotato della sua forza dirompente. Non solo perché esploderà, incongruamente, nel pieno di una scena intrisa di forsennata, feroce comicità; ma per il lungo strascico, anch’esso in ralenti, che trasforma in levare un finale scritto in battere, come dettava la tradizione del dramma borghese.

Ma il centro tematico dell’opera è quell’impotentia agendi, tipica dell’anima russa: una variazione čechoviana degli archetipi consegnateci da Puškin, da Gončarov, che ritroveremo nei suoi testi teatrali successivi.

Anche fra i personaggi di Ivanov, come nella quasi totalità delle opere teatrali čechoviane, troviamo un medico: L’vov. Ma, mentre altrove riconosciamo in quella figura lo sguardo penetrante, ma temperato dal pragmatismo, del dottor Čechov, costui ha una rigidezza etica ed ideologica che ricorda piuttosto certi tormentati personaggi di Ibsen, privi di empatia: una sfida per l’interprete, il bravo Ivan Zerbinati, nella non facile impresa di rendere credibile un personaggio forse non del tutto teatralmente riuscito.

Più a loro agio, oltre allo stesso Dini, gli altri attori (spesso impegnati in più di un ruolo): da Sara Bertelà, la dolente Anna Petrovna, a Valeria Angelozzi, la giovane, appassionata Saša; da Gianluca Gobbi, disincantato Lebedev, a Nicola Pannelli, un appassito conte Šabel’skij, sopravvissuto di un mondo tramontato. Ed anche i personaggi cosiddetti minori (ma esistono, in Čechov, personaggi minori?) evidenziano un cast il cui palese affiatamento contribuisce alla riuscita di un’operazione culturale e spettacolare coraggiosa, e che risulta vincente.

Un’ultima notazione, non marginale, sulle scene e i costumi. In una proposta che si voleva fedele all’originale čechoviano, come vestire i personaggi? Come arredare e gli interni? La soluzione trovata è equidistante fra un’attualizzazione, che avrebbe stonato, e una pedissequa ricostruzione filologica. La regia non rinuncia ad alcune indicazioni testuali, che contribuiscono a caratterizzare qualche particolare personaggio (pensiamo all’abito da cavallerizza di Saša; al cappello di paglia dell’anziano, ma ancor vanitoso conte Šabel’skij). È lo stesso Dini a spiegarmi di avere pensato alla mobilia e agli abiti visti in campagna, nella sua infanzia: oggetti d’antan, ma senza tempo, che si inseriscono senza stridere in un contesto che, ad un tempo, è ancorato al passato, ma ci parla dell’oggi.

E per finire, un’ultima, sommessa nota di merito: i nomi russi sono pronunciati correttamente, e riportati in locandina secondo le regole della traslitterazione scientifica. Scusate se poco.

 

Claudio Facchinelli

 

Ivanov, di Anton Čechov, regia di Filippo Dini, con Filippo Dini, Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Gianluca Gobbio, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe.

Scene e costumi di Laura Benzi.

Musiche originali di Arturo Annecchino

Produzione Fondazione Teatro Due / Teatro Stabile di Genova

Visto al Franco Parenti di Milano il 7 ottobre 2015

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