De Capitani firma una versione elegante ma senza particolare anima di uno dei più tragici drammi di Williams.
Decadenza morale, follia, crisi economica ed omosessualità sono gli elementi più ricorrenti della drammaturgia di Tennessee Williams, il drammaturgo che, con Arthur Miller e dopo Eugene ‘O Neil, ha raccontato l’America con estrema criticità, partendo sempre da drammi privati. “Improvvisamente l’estate scorsa” è sicuramente uno dei suoi drammi in cui Williams si abbandona in un simbolismo descrittivo quasi onirico, in cui, ancora una volta, il suo senso di colpa nei confronti della sua omosessualità si esprime con estremo dolore e sofferenza. Come in altri suoi drammi la figura di un omosessuale è raccontata dopo la morte di quest’ultimo, e se per “Un Tram che si chiama desiderio” e “La gatta sul tetto che scotta” Adam e Skipper arrivano ad un suicidio dichiarato, Sebastian, il protagonista assente di “Improvvisamente l’estate scorsa”, si procura la morte attraverso il modo più simbolico, cannibalizzato da giovani ragazzi di strada, durante un viaggio in Spagna, che, in qualche modo, anticipa la morte di uno dei più grande intellettuali omosessuali del ‘900, il nostro Pier Paolo Pasolini. Tutto questo simbolismo (la storia viene raccontata da Catherine, la sua donna esca, durante una seduta di ipnosi, prima che Violet, la madre di Sebastian, costringa la ragazza ad una lobotomia , per far si che il cervello non ricordi l’accaduto) viene servito da Elio De Capitani, regista della produzione del dramma realizzata dal “Teatro dell’Elfo” di Milano, con inusuale realismo. Scenografia ipernaturalistica, dialoghi recitati con sobrietà, che ricordano più un dramma naturalistico di Cechov, cosa che ci sembra davvero inusuale vista la presenza nel dramma di uno dei colpi di scena più drammatici, in cui morte violenta, sangue e morbosità si intrecciano in maniera vorticosa, pari solo ad archetipi afferenti alla tragedia greca, piuttosto che il più malinconico ironico e minimalista dei drammaturghi, in una realizzazione scenica che ci sembra ancora più antica della versione cinematografica firmata da Mankiewicz, nel 1959, e dell’ultima straordinaria regia di Patroni Griffi del 1994. Ci spiace che il regista che seppe realizzare una delle più belle versioni italiane di “Un Tram che si chiama Desiderio”, vent’anni fa, con la grande Mariangela Melato, in cui i protagonisti si muovevan o in una sorta di capanna berbera, non riesca, in questo caso, a convincere, con quello ci appare come uno spettacolo di routine, senza particolari motivazioni artistiche, per altro poco servito dalle interpretazione degli attori, assolutamente non adeguate alla grande portata drammatica del testo, La leziosità di Cristina Crippa, (Violet Vaneble), non ha molto a che vedere con la severa ed allo stesso tempo svagata natura del suo personaggio, così come le piroette e le moine di Elena Russo Arman non si addicono, a nostro avviso, con l’asciuttezza del personaggio di Catherine. Discreta la prova di Cristian Giammarini, lo psichiatra che porta Catherine alla verità, ma il tutto sembra ridotto ad una sorta di commedia rosa, con lieto fine romantico, in cui le prove più riuscite ci sembrano quelle di Corinna Augustoni, Edoardo Ribatto e Sara Borsarelli, che tratteggiano con ironia i personaggi di contorno alla tragedia.
Napoli, Teatro Bellini – 26 febbraio 2014
Gianmarco Cesario