“Il cappotto”: sogni e naufragi della mediocrità umana

Al Teatro Metastasio di Prato il racconto di Gogol’ riscritto e interpretato da Vittorio Franceschi.

Tra luci fredde, atmosfere rarefatte e gelidi soffi di vento, il grande inverno russo è arrivato al Metastasio di Prato, portando con sé “Il cappotto” di Gogol’ nel riadattamento teatrale di Vittorio Franceschi. Una riscrittura elegante, che rispetta lo spirito del racconto sia nella sua vena realistica, che nella capacità di colpire, con umorismo e ironia, la società russa di metà Ottocento. Risate sincere e sorrisi amari, dunque, per camuffare quel dito puntato verso quelle rigidità burocratiche, convenzioni sociali e mancanza di etica tristemente note allo scrittore ucraino. Ma, come deve essere per ogni grande classico, la sua ripresa diventa anche l’occasione per una riflessione sul nostro contemporaneo. In questo caso sulle sue prepotenze e sull’impossibilità di riscatto per chi si limita a subire, in un voluto anonimato, violenze e insulti della vita.

10928668_10200135362264037_1676898624_nProtagonista del racconto il mediocre Akakij Akakievič Bašmàčkin, un funzionario dell’apparato statale pietroburghese. La sua filosofia di vita è tutta racchiusa nell’espressione: «Copista. Il più bel lavoro del mondo perché non occorre pensare!». Un personaggio, dunque, tanto meschino da suscitare compassione quando non repulsione. Le sue giornate scorrono all’insegna di un’esasperante (per noi) e rassicurante (per lui) monotonia. La sua opprimente metodicità è fatta di piccoli gesti ripetuti: da venticinque anni percorre le stesse strade, alla stessa ora, per andare e tornare dalla stessa casa allo stesso lavoro, vivendo le vite degli altri, già successe e pronte per essere copiate in bella grafia. Con l’unico sogno, un’ambizione talmente grande da dover essere bisbigliata a fil di voce, di poter scrivere le lettere maiuscole con l’inchiostro rosso. Piccoli tic, manie e uno stupore quasi infantile che Vittorio Franceschi restituisce in maniera magistrale. La sua delicatezza nei movimenti e nelle parole sembra quasi una danza che inizia con i piccoli passetti, in punta di piedi, per evitare di consumare la suola delle scarpe, e raggiunge il culmine in quegli occhi spalancati, intimoriti e sognanti, di fronte al più prevedibile degli imprevisti: il vecchio cappotto è talmente logoro da non poter essere aggiustato. Occorre farne uno nuovo. Ottanta rubli per un nuovo e caldo indumento color marroncino kaki con collo di gatto di Parigi. Ma un tale cambiamento nelle proprie abitudini non può non avere conseguenze disastrose. La vita mette Akakij Akakievič alla prova, il cappotto viene rubato, e lui ne resta talmente turbato da non poter sopravvivere.

Bravi anche gli altri attori che, grazie alla regia di Alessandro D’Alatri, riescono a imprimere il giusto ritmo alla serata. A cominciare da Federica Fabiani, Agrafèna Ivànovna, una tenera e realistica padrona di casa. Umberto Bortolani è il sarto Grigòrij Petròvič, brontolone e sognatore. Al suo fianco Marina Pitta, la burbera e brontolona moglie. Da segnalare anche l’esilarante mercante di stoffe interpretato da Alessio Genchi.

10957969_10200135361944029_69926121_nA impreziosire lo spettacolo, poi, le belle musiche di Germano Mazzocchetti e le scene di  Matteo Soltanto che impalcano, simultaneamente, le “quinte” entro cui scorre l’esistenza di Akakij Akakievič. Così, tra pile di registri e documenti pronti per essere copiati, vediamo sulla sinistra la sua misera stanzetta in affitto, a destra la bottega del sarto che gli cambierà la vita e, significativamente al centro, l’ufficio. Il fondale si perde indefinito, restituendo l’immagine di una storia senza tempo, ma anche il gelo di quell’inverno siberiano che abbiamo evocato in apertura. Solo con l’arrivo del nuovo cappotto un telo ricopre gli amati strumenti di lavoro di Akakij Akakievič, segno certo dell’avvenuto cambiamento, ma anche dell’oblio che ormai, inesorabilmente, sta calando sulla sua mediocrità.

Prato – Teatro Metastasio, 22 gennaio 2015

Lorena Vallieri

IL CAPPOTTOdi Vittorio Franceschi; liberamente ispirato all’omonimo racconto di Nikolaj Vasil’evič Gogol’; regia: Alessandro D’Alatri; scene: Matteo Soltanto; costumi: Elena Dal Pozzo; luci: Paolo Mazzi; musiche: Germano Mazzocchetti; suono: Giampiero Berti; regista assistente: Gabriele Tesauri; produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione.

Interpreti: Vittorio Franceschi, Umberto Bortolani, Marina Pitta, Federica Fabiani, Andrea Lupo, Giuliano Brunazzi, Matteo Alì, Alessio Genchi, Stefania Medri.

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