Hands do not touch your precious Me, ideato e diretto da Wim Vandekeybus, coreografo, fotografo e regista belga fondatore della compagnia Ultima Vez, in collaborazione con Olivier de Sagazan, artista francese che da anni lavora sul concetto di trasfigurazione, è un’operazione scenica di incredibile impatto etico ed estetico che conduce gli spettatori all’interno di una dimensione misteriosa, trascendente e ctonia al tempo stesso, a metà strada tra l’inaccessibilità astratta del sogno e la densa materialità delle masse corporee, dimensione misteriosa che si coglie già nel titolo tratto dal verso di un inno della sacerdotessa sumera Enheduanna alla dea Inanna.
La storia della discesa agli Inferi della dea Inanna, importante divinità arcaica mesopotamica dalla natura sostanzialmente ermafrodita, è una storia estremamente suggestiva, in grado di presupporre un potentissimo lavoro di perlustrazione e indagine sui cicli dell’esistenza, sulla dialettica delle esperienze umane, sulla coincidentia oppositorum dei più insondabili arcani della nostra vita, sulla fine e sulla rinascita dei corpi e delle coscienze.
Gli eccezionali interpreti di Hands do not touch your precious Me si muovono e si dispongono in scena con la forza di chi è consapevole di dover raccontare tensioni e dinamiche universali che, attraversando l’intero ciclo vitale dell’essere umano, conducono quest’ultimo ad immergersi pienamente nella vita, accettando le sue molteplici iniziazioni, i correlati stati d’afflizione e di gioia, le fasi della palingenesi e quelle dell’abbandono.
Un lavoro imperdibile, dunque, incardinato sulla narrazione della trasfigurazione, quest’ultima poderosamente restituita attraverso la vera e propria immersione, totalmente fisica e muscolare, degli artisti nella creta, sperimentazione cara, d’altronde, a de Sagazan che ha sviluppato e continua a sviluppare da oltre un ventennio esperienze performative artistico-rituali ricorrendo, appunto, alle potenzialità plastiche della creta.
E così, i bravissimi danzatori coinvolti nel progetto, esplorano in scena la loro stessa identità e la possibilità di trasmutarla o riplasmarla, costruendo e distruggendo maschere e corazze di creta che applicano sul proprio corpo e sul proprio volto, spingendosi con determinazione oltre ogni linguaggio convenzionale e standardizzato, evocando l’iconografia inquieta e cruda di Francis Bacon e recuperando il gesto assoluto della lezione di Artaud e del teatro balinese, gesto che esclude qualsiasi mimesi pseudonaturalistica, volgendosi, dunque, a una prospettiva rituale dello spettacolo, prospettiva che tramuta il teatro in un tempio in cui agiscono forze occulte, profonde, poeticamente archetipiche.
Replica del 06.05.2022, Teatro Bellini di Napoli