“Dispacci da Mosca”, in scena a dicembre al Tram, è un testo di Antonio Mocciola destinato a far discutere; si parte dall’invasione della Russia all’Ucraina, ma in realtà il “focus” è l’abuso, il sopruso, il ricatto e il commercio volgare di carne umana. Uno spettacolo politico e intimo allo stesso tempo. Abbiamo incontrato uno dei protagonisti, Gianluca Bosco.
Il tuo personaggio, che l’autore ha disegnato apposta per te, è un tipico uomo di potere, disposto a tutto per ambizione. Che tipo di emozioni ti accompagnano prima di interpretarlo?
Devo dire che mi trovo a discreto agio nell’interpretazione del ruolo, non certamente perché io sia un uomo senza scrupoli guidato unicamente dalla sua sete, bensì perché il personaggio porta con sé una certa impassibilità che è di me tipica e che mi riesce particolarmente. È anche chiaro, poi, che questa sensazione venga attenuata dalla scrittura scenica, che in sede di prova altera il lavoro a monte, rendendo ben più difficili e stimolanti i compiti dell’attore, senza che resti mai comodo anche tra una caduta e quell’altra.
Il corpo, fondamentale nella tipica narrazione dell’autore, è qui esposto quasi come agnello sacrificale sull’altare (in questo caso della patria). Hai delle scene di grande pathos in cui reciti completamente nudo. Cosa ti spinge ad affrontare questa sfida, in cui l’intenzione, il gesto, acquisisce una fragilità, un’emotività più viva, più cruda? Come la vivi?
Non credo che sia una sfida. Il restare completamente nudi può solo essere un motivo, tuttalpiù, di vergogna, ed io credo che anche portare della vergogna in scena abbia un grande valore, purché sia autentica. È bene che traspaia ciò, per quel che mi riguarda. Non ripongo nel nudo un valore che non sia quello puramente personale, né tantomeno sono affascinato dal simbolismo in sé, che è la versione mal rimasticata, nelle arti sceniche (seppur non in quelle figurative), di ciò che generano le metafore in letteratura.
Nel contesto del tuo percorso artistico, come si pone questo spettacolo, così diverso dal consueto?
Prima di tutto, direi che, a 22 anni giusto compiuti, definire il mio un “percorso” artistico sia una lusinga che non merito, diciamo che è stata piuttosto una promenade. È certamente vero, tuttavia, che questo cammino è stato occupato unicamente da opere da me scritte in versi, dei cortometraggi che si direbbero sperimentali, una commedia dialettale ed un’altra in inglese, dunque, sorprendentemente, un’opera che mi obblighi alla canonica interpretazione del ruolo in una realtà precostituita en scene è, per me, qualcosa di inusuale e che, questa volta davvero, mi mette in seria difficoltà. Più del nudo e anche di tutto il resto, è questa la mia sfida. Sono convinto, tuttavia, che sia questa, da anni, la direzione del teatro, ovvero prendere in prestito dal cinema le sue unità linguistiche, dunque è bene che anche chi non è avvezzo vi si cimenti.