“Gaudeamus” torna a Milano dopo 25 anni

Per pochi giorni, dopo 25 anni è tornato a Milano Gaudeamus, che aveva rivelato Lev Dodin al mondo: allora, strabiliante scoperta di un linguaggio teatrale inconsueto, che rinnovava ancora una volta, dopo Ljubimov, i fasti della tradizione registica russa; oggi, uno spettacolo che mantiene tutto il suo trascinante fascino.

Quella ventina di giovani attori che affollano il palcoscenico sono di una bravura che stordisce. Ovviamente, non son quelli visti allora al Lirico di Milano: “Molti di loro non erano ancora nati”, fa notare col quel suo sorriso affettuoso e un po’ sornione l’ormai settantenne Lev Abramovič. Qualche anno fa, parlando al chiostro Nina Vinchi delle sue regie čechoviane, non diceva “ho messo in scena”, né “ho realizzato” ma, con qualche imbarazzo della sua ottima traduttrice, “abbiamo partorito, generato”. Quell’espressione mi è tornata in mente assistendo nuovamente a questo incredibile spettacolo, che rivelava il rapporto affettuoso, genitoriale, che Dodin stabiliva con le sue creature.

Il lavoro è la trasposizione teatrale di Strojbat (un neologismo, acronimo delle parole “costruire” e “battaglione”) di Sergej Kaledin, ma di questo lungo racconto non è facile trovarne notizie, neppure sul Google russo, se non che è stato pubblicato nel 1994, quindi probabilmente inedito quando, nel ’90, Dodin crea Gaudeamus.

Non è necessario, per lo spettatore, seguire il profluvio di battute che inondano le due ore e più di spettacolo senza intervallo, dove non succede quasi nulla (o forse succede di tutto); ma dove una serie infinita di gag costellano sbornie, risse, temerari e arditi incontri erotici, istruzioni sconclusionate impartite alle reclute di un eterogeneo battaglione di costruzione; ma anche delicati intermezzi di danza e balletto, contrappunto simbolico – o forse onirico – alla dilagante violenza, alla quasi surreale, aggressiva demenza che sembrerebbe informare quell’angolo di Unione Sovietica ormai prossima allo sfascio.

Gli attori, quasi sempre tutti in scena, padroneggiano una gestualità, una mimica facciale che sortisce effetti di irresistibile comicità. Sanno danzare, cantare, suonare una incredibile quantità di strumenti: pianoforte, djembe, basso tuba, clarinetto, tromba, sassofono. Si danno al pubblico con generosità, senza risparmio.

E colpisce il rigore con cui sono orchestrati i movimenti, apparentemente caotici, in un ampio spazio scenico innevato: un tappeto di minuti frammenti di plastica, che si compattano e sfarinano come vere palle di neve, nel quale si aprono, a sorpresa, innumerevoli botole, che ora ingoiano i personaggi, ora fanno sbucare i militari, o improbabili, sbraitanti ufficiali dell’Armata Rossa.

Il contesto storico è quello dell’era Gorbačëv, che però rimane sullo sfondo, così come pure l’assunto politico, satirico. Ed è proprio nel titolo, apparentemente incongruo, che si svela e ricompone il frammentario dipanarsi delle azioni.

Nel finale, dopo un inebriante carosello, dove ognuno suona il suo strumento, gli attori cantano tutti insieme Gaudeamun igitur iuvenes dum sumus, un inno goliardico alla gioventù, alla voglia di vivere. E che voci hanno questi ragazzi, specie le donne!

In quel canto corale la violenza fisica, l’invasivo linguaggio da caserma, la surreale ottusità istituzionale dell’esercito, la sconcezza delle sbronze, trovano una sublimazione, una sintesi drammaturgica nella incoercibile, tenerissima gioia vitale, già catalizzata dalla candida malizia dei corpi seminudi sulla neve, da invenzioni di irresistibile comicità, come la scena in cui una coppia fa l’amore sopra un pianoforte a coda sospeso, strimpellando con gli alluci un motivetto sulla tastiera.

Come ormai è consuetudine, grazie anche a una tecnologia che ha raggiunto buoni livelli tecnici, lo spettacolo era sovratitolato. Ma era una scelta davvero necessaria? In effetti, il linguaggio, infarcito di termini gergali, era poco comprensibile a chi non avesse un buon possesso del russo, ma ciò non ha impedito al pubblico di farsi catturare dalla seduzione teatrale dell’insieme.

Non solo, ma i sottotitoli, oltre ad esser faticosamente leggibili (per non parlare dei problemi di cervicale, che condizionano almeno una metà della platea), distraggono dall’azione scenica.

Venticinque anni fa, al Lirico non c’erano i sottotitoli, ma solo una paginetta di sinossi che illustrava sinteticamente i vari episodi. Non credo, allora, di aver recepito con maggior difficoltà, né minor piacere quell’esibizione. Forse, anche in considerazione che l’elemento non verbale costituisce la struttura portante di Gaudeamus, quella soluzione sarebbe stata più adeguata.

 

Claudio Facchinelli

 

Gadeamus, dal racconto Battaglione di costruzione di Sergei Kaledin.

Adattamento e regia di Lev Dodin; scene di Aleksej Poraj-Košic; costumi di Marija Fomina e Nadežda Koval’.

Con: Evgenij Sannikov, Aleksej Morozov, Stanislav Tkačenko, Filipp Mogil’nickij, Leonid Lucenko, Aleksandr Bykovskij, Artur Kozin, Bekarij Culukidze, Evgenij Serzin, Andrej Kondrat’ev, Pavel Grjaznov, Oleg Rjazancev, Stanislav Nikol’skij, Marija Nikiforova, Ekaterina Kleopina, Dana Abyzova, Dar’ja Rumjanceva, Anna Blinova, Arina von Riben.

Produzione del Malyj dramatičeskij Teatr di San-Pietroburgo.

Visto al teatro Strehler di Milano il 27 gennaio.

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