Francesco Gafforio: “Il mio San Giovanni nudo, torturato e felice
Ma il teatro più sembra semplice e povero, più é difficile”

Nella scena teatrale partenopea, Francesco Gafforio si sta ritagliando un ruolo interessante, e audace, nella triplice veste di attore, autore e regista. Nell’ambito di una serata negli spazi dell’ “‘A mbasciata”, a Napoli, lo scorso autunno ha presentato un testo di Antonio Mocciola ed Edgardo Bellini, “Estasi – l’ultimo sospiro di Giovanni”, che in una doppia replica ha riscosso notevole interesse. Con lui in scena, Marianna Cinoboli – nelle vesti di Salomé – e Francesco Di Maso, che ha accompagnato dal vivo con la sua chitarra i momenti più intensi del breve spettacolo.

Nel contesto della mostra fotografica “Le vittime di Dio”, curata dallo stesso Mocciola, la performance ha assunto i colori quasi di un sabba, e nel prossimo anno tornerà anche in forma di monologo.

Estasi, lo spettacolo di cui sei protagonista, parla delle ultime di ore di vita di San Giovanni, pronto ad essere sacrificato da Salomé. La natura mistica dei santi spesso confina col sadomasochistico. Condividi questa lettura?

Sì, senza dubbio. D’altronde qualsiasi pratica mistica che veda la rinuncia e la sofferenza come mezzi necessari all’ascensione, alla diretta comunicazione col divino e quindi col piacere supremo (l’estasi, per l’appunto), non può che confinare con il sadomasochismo. L’agiografia ci mostra da due millenni esempi di martiri felici di subire le peggiori torture ma, un po’ per inconsapevolezza e un po’ per ipocrisia, la narrazione non ha mai compreso il piacere che costoro avrebbero potuto provare in quei momenti fatali. La più recente psicologia ci ha palesato la possibilità di questo legame fra estasi e sadomasochismo, ma prima ancora, come spesso accade, ce l’ha mostrata l’arte figurativa.

In scena sei da solo, completamente nudo per tutto lo spettacolo. Di fronte a te, la presenza e l’attenzione di tanta gente che chiede al tuo corpo, alla tua voce, di raccontare una storia, senza nessun tipo di orpello, di scena, o di effetti speciali. Cosa ti spinge ad affrontare questa sfida, in cui l’intenzione, il gesto, acquisisce una fragilità, un’emotività più viva, più cruda? Come la vivi?

La sfida che affronto non è dissimile da quella che mi impongo ogni volta che vado in scena o dirigo un lavoro, da regista o da formatore: trovare la forma più adeguata alla sostanza. Nel caso di “Estasi” la ricerca ha inevitabilmente portato a questa specifica forma; a mio avviso la fragilità di San Giovanni, nudo fuori e dentro di fronte a Dio e al mondo, avrebbe perso la sua vis se fossero stati presenti altri orpelli. Inoltre la mia cifra stilistica è molto vicina a quella del “teatro povero” di Grotowski, per cui provo una naturale diffidenza nei confronti di mezzi diversi dal corpo e della voce dell’attore atti a stabilire un “flusso” (come lo chiama Victor Turner) con gli spettatori. Vivo quest’esperienza con un’inaspettata serenità: la difficoltà, semmai, risiede nella raccolta dell’attenzione e della concentrazione necessarie a non ridurre un ruolo così ingombrante nell’immaginario collettivo come quello di San Giovanni in una semplice performance guidata dal repertorio di tecniche attoriali, tentazione nella quale spesso gli artisti rischiano di cadere pur di non affrontare la cruda semplicità delle pulsioni inconsce.
Nel contesto del tuo percorso artistico, come si pone questo spettacolo, così diverso dal consueto?
Il mio percorso artistico è sempre stato eterogeneo, costellato di esperienze fra loro molto diverse. All’interno di questo percorso “Estasi” si pone nella posizione che merita, ossia del lavoro che mi ha permesso di focalizzare le mie energie sulla semplicità del teatro, ma questo termine non tragga in inganno: essere semplici è molto difficile. Si tratta di una lezione che senza alcun dubbio ha confermato la genuinità della ricerca artistica che già da tempo stavo effettuando e per questo non posso che ritenermi soddisfatto.
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