“Cleopatras” : la fresca regia di Manni vince una non facile sfida

cleopatrasGiovanni Testori non era un uomo semplice: intellettuale colto e raffinato, ma profondamente legato alla sue radici lombarde; esponente di un cattolicesimo rigoroso, ai limiti dell’integralismo, ma unito in un fecondo sodalizio artistico con un uomo di tutt’altra impostazione ideologica, come Franco Parenti.

Lo ricordo nella camera ardente che il Salone Pier Lombardo aveva allestito per l’attore, quando aveva pronunciato, a braccio, un affettuoso necrologio, rivolgendosi al defunto con un milanesissimo, “Parenti Franco!”.

L’avevo incontrato la prima volta una decina di anni prima, in occasione di un suo intervento in un corso di cultura teatrale. Mi aveva colpito la severità del suo volto, e mi aveva turbato l’intensità del suo sguardo; i suoi occhi di un azzurro gelido che sembravano fissarsi su mondi a noi invisibili. Parlava con tono pacato, ma le sue parole avevano una forza penetrante, quasi profetica. Mi aveva fatto venire in mente figure come Pietro l’eremita, Girolamo Savonarola. Ricordo la sua risposta all’intervento provocatorio di un giovane, cui aveva replicato, senza scomporsi: “La sua aggressività non la porterà lontano”.

Alcuni suoi testi, come i Tre lai, mi hanno spesso ispirato la medesima conturbante, contraddittoria attrazione che provavo per l’uomo.

Di Cleopatràs si ricordano le interpretazioni di Sandro Lombardi, di Arianna Scommegna. La scelta di Marta Ossoli, non ancora trentenne, di cimentarsi con un testo di tale impegno, e di farsi dirigere da Mino Manni, un attore dotato di professionalità e talento, ma alla sua prima esperienza registica, poteva apparire temeraria. Ma così non è stato.

cleopatras.2Il risultato, infatti – se il termine non appare incongruo, parlando di Testori – è assolutamente godibile. La drammaturgia e la regia incastonano nel criptico, denso magma linguistico testoriano elementi di leggerezza, cui dà corpo l’avvenenza, ma specialmente la duttilità di Marta, che sa calarsi con efficacia e disinvoltura nella molteplicità dei ruoli della reina: ora avvolta in un sudario rosso, fantasma evocato da un inferno dantesco suggerito dai cavernosi fonemi di Carmelo Bene; ora bagascia di strada; ora bagnante volgarotta, al suono di Abbronzatissima, nel ricordo degli amori felici con Marco Antonio (il suo Tugnàs); ora mater dolorosa, col corpo di lui – quello stesso sudario color sangue – fra le braccia. Infine, nella lunga sequenza finale a seno nudo, che culmina col suicidio procurato col morso di un aspide, i severi riferimenti all’iconografia classica di Cleopatra (i gioielli, i capelli che coprono pudicamente il petto) convivono con una danza dionisiaca, scandita da percussioni africane, in un trionfo barbarico, ove eros si congiunge a thanatos, finché la lunga collana d’oro che le cingeva il collo, trasformata in serpente dal veleno mortale, le spegne la vita.

Una lettura registica e interpretativa ricca di invenzioni originali, apparentemente disinvolta, ma che, di fatto, fa emergere ed amplifica i molti registri, dal beffardo, al tragico, al grottesco, che costituiscono uno degli elementi del fascino ambiguo che emana dalla parola di Testori

Claudio Facchinelli

Cleopatràs, di Giovanni Testori

Con Marta Ossoli; regia di Mino Manni; assistente alla regia, Serena Lietti; disegno luci di Alberto Gualdoni.

Milano, Teatro Filodrammatici

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