Utøya, della memoria elettronica e altre carneficine

Succede spesso, immersi come siamo in una patologica condizione di ipertrofia comunicativa, attiva o passiva che sia, che la memoria personale di eventi tragici appassisca nel giro di pochi giorni, come se ritenessimo sufficiente affidarla a quell’immenso Moloch rappresentato della memoria elettronica.Utoya_Mattia-Fabris_Arianna-Scommegna3_FotoSerenaSerrani-

Così la carneficina perpetrata meno di cinque anni fa a Oslo e sull’isola norvegese di Utøya, dopo aver riempito per qualche giorno le prime pagine dei giornali, è uscita dalla cronaca, e anche dalla nostra coscienza.

Col saggio Il silenzio sugli innocenti, dal significativo sottotitolo Le stragi di Oslo e Utøya – Verità, bugie e omissioni su un massacro di socialisti (Ed. Ediesse), Luca Mariani, giornalista politico, ha riportato alla luce alcune domande inquietanti, che erano rimaste senza risposta: come ciò è potuto succedere? In che modo la lucida determinazione omicida di Anders Breivik ha potuto progettare, indisturbata, un piano così accurato e devastante? Come mai la polizia è intervenuta così tardi?

Lo spettacolo, scritto da Edoardo Erba e con la regia di Serena Sinigaglia, obbliga lo spettatore a riaprire quelle ferite, forse suturate troppo frettolosamente, e lo fa con un originale espediente narrativo. Non viene data voce né a colui che ha perpetrato le stragi, né alle vittime: gli eventi vengono restituiti in modo obliquo, riflesso, nei dialoghi di tre coppie, coinvolte a diverso titolo nella vicenda. Un marito e una moglie, dopo aver recriminato sull’invio della figlia al campeggio sull’isola, ben prima di aver notizia della strage, vi partecipano con un’ansia che monta di ora in ora, nell’impossibilità di collegarsi telefonicamente con la ragazza. Due agenti di polizia, un uomo e una donna, legati da un passato sentimentale irrancidito da tempo, reagiscono con diversa sensibilità all’emergenza, in un feroce contrasto fra l’osservanza delle rigide regole di’ingaggio, imposte dall’uomo, superiore gerarchico, e un’istanza più realistica e generosa della donna. Un ragazzo demente, che convive con la sorella, con un’intuizione nebulosa ma veritiera, identifica in uno scostante, enigmatico vicino di casa il responsabile della strage.Utoya_Mattia-Fabris_Arianna-Scommegna4_FotoSerenaSerrani-

Una felice mano registica e un’intelligente professionalità attorale consente al pubblico di seguire la originale struttura narrativa, che alterna ed intreccia, senza visibili soluzioni di continuità, le azioni e le parole delle tre coppie, nessuna delle quali entra mai in comunicazione con le altre. Mattia Fabris e Arianna Scommegna entrano e escono senza sforzo dai tre ruoli, con espedienti minimali, ma sempre intelligibili (ricordiamo i trasformismi di Fausto Russo Alesi, diretto dalla stessa Sinigaglia in Natura morta in un fosso, di Paravidino). Mattia costruisce con abilità tre credibili personaggi maschili, ognuno con una sua netta caratterizzazione. Al tratteggio delle tre figure femminili, accomunate da un pragmatismo, da un buon senso femminile, Arianna contribuisce con la sua intensa, duttile capacità espressiva, fatta di scarti quasi impalpabili, sotterranei.

La scenografia di Anna Spazzi, rinunciando a qualsiasi connotazione che caratterizzi i tre ambienti (un interno borghese, una stazione di polizia, una casa di campagna), situa le tre azioni parallele in un unico luogo simbolico, coperto da un tappeto di specchi spezzati e da ceppi di legno di varie dimensioni, come una vaga evocazione dei paesaggi forestali della Scandinavia. Utoya_Mattia-Fabris_Arianna-Scommegna5_FotoSerenaSerrani-In questo spazio, a un tempo neutro e di forte suggestione figurativa, è la suggestione della parola, assieme al registro mimico e gestuale, a suggerire la presenza degli invisibili oggetti tecnologici (i telefoni, i televisori), attraverso i quali i personaggi seguono il susseguirsi delle vicende di Oslo e Utoya.

Un esempio raro in cui la valenza civile del messaggio trova la sua espressione compiuta in un’opera di alta qualità teatrale: il risultato dell’affiatamento di artisti, poco più che quarantenni, maturati all’insegna di un’etica e di un’estetica che ha sempre caratterizzato il loro gruppo di appartenenza (proprio in questi giorni Atir festeggia il ventennale della sua nascita).

Claudio Facchinelli

Utoya, un testo di Edoardo Erba, con la consulenza di Luca Mariani.

Regia di Serena Sinigaglia; con Mattia Fabris e Arianna Scommegna; scene di Anna Spazzi.

Produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana

Visto al Teatro di Ringhiera martedì 3 maggio 2016.

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