Nel suo nuovo spettacolo l’artista livornese affronta il delicato mondo della malattia mentale e si domanda: ‹‹E’ preferibile essere sani ma sentirsi malati, o essere malati ma sentirsi sani?››.
‹‹Il bianco non mi piace, ho bisogno di colori››, così esordisce Nada Malanima nel suo ultimo lavoro teatrale, dove indossa i panni di una donna rimasta sola con gli anni che avanzano inesorabili, inchiodata alla sua sedia a rotelle, ormai ‹‹indecisa ed indecifrabile›› nel carattere. Un dramma inarrestabile che la vede degna interprete di un racconto sconvolgente, dalla drammaturgia intensa ed elegante, duro fino alle ossa stanche, amaro come i pensieri bruciati dall’aria gelida dell’ospedale psichiatrico, dove la protagonista che incarna è ricoverata. Il tempo sembra eterno e senza scorrimento alcuno, le finestre non hanno spifferi, tutto è fermo in questo luogo di permanenza forzata, atmosfera meticolosamente resa anche dalle misurate scenografie, che ben risaltano il clima di freddezza emozionale e la presenza esclusiva dell’attrice sul palco. Eccola incombere sulle scene seduta su una poltroncina motorizzata, vagando le quinte scarne di un ambiente da cui si sente costantemente osservata, ma la platea è tutta sua, un’attenzione fluttuante avvolge la sala conquistata dalle tristi vicende che sembrano averla segnata nel profondo.
Il suo si presenta, fin dalle prime battute, un curato ed originale soliloquio che percorre i meandri più segreti e nascosti della storia del suo soggetto, la cui unica compagna è un’amica invisibile, inconsistente visione di un’altra lei, la sua intima allucinazione con cui intrattiene un legame di amore e odio senza fine. Un lavoro preciso e studiato nei dettagli quello di Nada, inscenato senza sbavature ma con estrema umanità, perfino ironico nella sua drammaticità. Il senso della sua pièce ‘scompaginata’ si coglie in fretta, ascoltando la carrellata di traumi umani che hanno logorato l’invecchiata degente: affetti fasulli, l’Uomo Nero che si personifica nel padre di sua figlia, itinerari surreali, un matrimonio fallito, abbandoni e tradimenti ricorrenti, le cure che non hanno nulla di assistenziale, prognosi e bugiardini incomprensibili, cliniche palliative e diagnosi frettolose degli “sturacervelli”. Ormai nemmeno i medici aiutano più, ‹‹non riescono a liberare il suo spirito, non costituiscono salvezza››, perché non basta ‹‹vomitare il marcio accumulato››, il cuore una volta azzannato dalle troppe menzogne non si rianima più. Non resta che accogliere a ‹‹braccia inchiodate e spalle incurvate›› l’operazione crudele che spazzerà via le sue angosce terrene ormai troppo deliranti. Lei la chiama “neuroleptoanalgesia”, la sedazione del dolore per eccellenza capace di liberare la povera ammalata dal suo falso Sé che la devasta incessantemente.
Con estrema lucidità e bravura Nada riesce in questa dissennata metamorfosi, dando voce al caso clinico che con accurata enfasi impersona e che azzarda con audacia l’ultima chance possibile, ‹‹diventare sana pur sentendosi malata››. Affranta e tormentata dalla paura di essere ancora maciullata e spremuta viva, decide di rimettere lei stessa a posto ogni cosa, perché non si possono aprire le teste della gente per risolvere i problemi dell’anima, lei è più di ‹‹un individuo studiato per essere capito››. E allora meglio sottrarsi a questa sfida verso l’ignoto che gli stessi dottori non interrompono e non sanno alleviare. Fregandosene rabbiosamente ingannerà tutti, anche se stessa forse, ma è stanca di essere ‹‹una prigioniera del futuro››. Esala l’ultimo grido di ribellione e si dissocia dai manuali diagnostici degli analisti, poiché l’ha imparato a caro prezzo, a volte è meglio ‹‹smettere di sentire e vedere tutto come un quadro››.
Firenze – TEATRO PUCCINI, 29 gennaio 2015
Mara Marchi
SCOMPAGINE – Regia: Alessandro Fabrizi; Drammaturgia: Nada Malanima; Produzione: Produzioni Fuorivia; Luci e oggetti di scena: Andrea Violato; Costumi: Antonio Marras; Interprete: Nada Malanima.