“Risorgimento – Vado a uccidere Re Umberto”
le storie dentro la Storia rivivono a teatro

Di regicidi sono pieni i libri di storia.

Talmente pieni che praticamente o non se ne parla o li si da per scontati: come se il far fuori un monarca fosse il naturale istinto della generale insoddisfazione che in tal modo erompe dai margini del “fisiologico” malcontento per trasformarsi in una mostruosa tabula rasa.

Il primordiale, irrefrenabile istinto di cancellare il passato che passa pel tramite dell’azzeramento di colui che incarni la summa dei valori (o disvalori) di un particolare momento storico.

Le vicende di re Umberto sono note ai più e non converrà soffermarvicisi se non per sottolineare come il figlio primogenito di Vittorio Emanuele, a causa delle sue politiche di austerità, aveva accumulato un malcontento strisciante e sotterraneo che si alimentava con il costante aumento esponenziale del prelievo fiscale; soprattutto negli ambienti del sud Italia ove la politica borbonica, al contrario, improntata ad una stagnazione della spesa pubblica, minimizzava l’intervento diretto dello Stato nei rapporti con i privati, a scapito, naturalmente, degli investimenti condannando la società meridionale ad una sostanziale preistorica e cronica arretratezza.

Ebbene, proprio a causa di un mutato assetto di poteri che aveva sostituito all’indolente dinastia dei Borbone quella invasiva dei Savoia il malcontento popolare non poteva che montare in furia materializzandosi nel primo, e non riuscito, attentato alla vita del monarca nel 1874 che, tuttavia, raggiungerà il suo scopo un quarto di secolo dopo a Monza.

I personaggi oggetto dell’ultimo testo teatrale a firma del collaudatissimo scrittore e drammaturgo Antonio Mocciola e di Edgardo Bellini, che ha fornito un notevole contributo di stile, si allocano in una sede (il Teatro Instabile diretto da Gianni Sallustro) particolarmente efficace perché sita in uno degli innumerevoli sottoscala dei palazzi nobiliari napoletani già adibita, in antichità, a chiesa paleocristiana a forma ottagonale.

Il pubblico è disposto su gradinate ascendenti su quattro angoli della costruzione ed acquista ruolo protagonista della messa in scena perché il pavimento dell’orchèstra è tutt’uno con le prime file, così permettendo l’impalpabile fluidità delle emozioni che il palcoscenico instilla negli spettatori.

La narrazione è forte, vigorosa nel suo incedere e non lascia scampo alcuno a fraintendimenti. Passannante, l’anarchico lucano, prototipo di appartenenza alla misera famiglia del sud, cerca lavoro alla corte dei potenti, si accontenta dapprima delle briciole che cadono dalle loro mense, ma il suo desiderio d’istruzione lo portano ad abbracciare la fede anarchica (o nichilista, secondo il modo ottocentesco di classificare il pensiero eversivo) al punto tale da cedere il suo giubbetto al monte dei pegni per ricavare la somma necessaria atta all’acquisto di un coltellino con cui proverà ad attentare alla vita del monarca.

Il tentativo fallito porta l’eversore in una reclusione da incubo, esaminato ed interrogato addirittura dal celebre criminologo Lombroso che, in modo del tutto antiscientifico, era intento in quegli anni alla compilazione del suo “capolavoro”, L’Uomo criminale, ove le misure dei crani e delle forme fisiche era rivolta alla conferma dell’idea preconcetta consistente nella delinquenzialità per nascita, idea che la ricerca dei dati avrebbero, secondo l’ottica dello scienziato, confermare.

Quanto di queste teorie che si agitavano silenziose e sotterranee nella seconda metà del secolo come serpi e basilischi ornate di bei colori ma carichi di venenifero potere avrebbero inquinato il secolo scorso ponendo l’Umanità a diretto contatto con i suoi demoni!

Non è certo se effettivamente Lombroso abbia direttamente partecipato all’interrogatorio ed all’esame di Passannante, ma è questione di secondaria importanza, ben nota essendo l’attrattiva che al criminologo esercitava il tipo “delinquente per tendenza” al quale di sicuro non sarebbe sfuggita la personalità di Passannante, ancorché distante dal modello lombrosiano tipo: ignorante e brutale, perché la personalità dell’anarchico si rivela curiosa e polimorfica, desiderosa d’imparare e di comprendere il senso assurdo che le dinamiche sociali andavano assumendo nel clima postunitario. E tanto è stato perfettamente messo in evidenza dall’interprete: il bravissimo Francesco Petrillo, recente scoperta del pantheon di giovani attori scritturati da Antonio Mocciola.

Oscuro e diafano come una silfide noir, Emanuele Di Simone interpreta il ruolo di Lombroso con un temperamento algido e metodico che si concreta in uno snocciolamento di domande salmodianti, quasi una recita demoniaca del Rosario. Tant’era bel quant’ora è brutto è il Lucifero dantesco che, nella specie, può essere completamente rovesciato perché l’indubbia avvenenza dell’attore fa da contraltare alla sordida e nera voce interiore che gl’impedisce di comprendere che l’abbrutimento delle condizioni umane sono la causa di azioni criminali e di certo non una predisposizione divina o diabolica in chiave predestinante. Di Simone è bravo e tiene testa all’attentatore conservando sempre alta la tensione della narrazione incalzando e retrocedendo in un immaginario duello in cui affilano le lame le ragioni della miseria e dei reietti che si rifugiano in un gesto eclatante per dimostrare la loro esistenza e la fredda misura della medicina che travisa i suoi insegnamenti trattando i “dimenticati” in cavie da laboratorio.

Protagonista del dramma il Passannante interpretato da Francesco Petrillo: attore la cui nudità in scena ha disvelato i tratti perfetti dell’uomo tormentato e sofferente. Tratti marcati, colori accesi, sguardo luciferino caratterizzano la fisicità del Nostro interprete al quale, pur dinanzi alle inumane torture inflittegli ed alle manipolazioni per mano del Lombroso, non è mai venuto meno il senso del pudore e l’espressione di una titanica dignità dinanzi al quale anche il Criminologo manifesta una certa esitazione.

Vigoroso nella recitazione, fermo nei suoi principi il Passannante interpretato da Petrillo non cede di un centimetro alle insidie lombrosiane e non perde occasione per sottolineare che le sue origini e la miseria in cui un regime l’hanno costretto ha generato il proposito di rivalsa concretatosi poi nello sconsiderato gesto.

Molto interessante anche l’algida versione “clinica” interpretata da Giuseppe Brandi, nel periodo di ricovero dell’anarchico lucano presso il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, nonché la pulita ed essenziale regia di Gennaro D’Alterio coadiuvato da Francesca Davide.

Il testo teatrale, come si è poc’anzi ricordato, è di straordinaria efficacia drammaturgica, un lungo ed incalzante duetto antesignano della ricerca della “razza perfetta”, dell’epurazione da ogni imperfezione di quel sonno della ragione che pochi decenni oltre avrebbe provocato il mostro del XX secolo.

Pietro Puca

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