Martone porta in scena Leopardi scegliendo un’opera dialogica, ironica e apocalittica che racchiude tutto il pensiero dell’autore.
Testo per la scena o testo per la letteratura, una polemica che non convince. Di fronte alla messinscena delle “Operette morali” di Giacomo Leopardi per la regia di Mario Martone, giunta al Teatro della Pergola di Firenze dopo il debutto a Torino nel 2011, qualcuno ha storto il naso, soprattutto alcuni Prof di lettere presenti in sala con i loro alunni del liceo. In verità ogni storia può avere destinazione teatrale, basta che il testo sia ben riadattato per il palcoscenico; la struttura stessa delle Operette (si tratta di dialoghi e novelle), poi, facilita notevolmente il compito e l’operazione di Martone, svolta discretamente insieme alla dramaturg Ippolita di Majo, ce lo dimostra. E colpisce anche la presenza in compagnia di una professionalità che in Italia non si è mai affermata (fondamentale invece in Germania), forse perché troppo spesso i registi preferiscono essere anche adattatori di testi (o banalmente non ci sono mai abbastanza soldi per pagare un’altra persona).
Oltre ad aver eseguito una selezione delle opere (14 su 24), il lavoro si è concentrato soprattutto nel limare un componimento che già di per sé si presentava in forma drammatica. Inoltre lo stesso Leopardi era riuscito a dare una linea ironica e leggera ai suoi dialoghi, necessaria per la messinscena, nonostante i temi esistenziali che andava trattando: una strategia non certo inventata da lui quella di trasmettere pensieri profondi e astratti attraverso racconti mitologici, accessibili alla comprensione anche di un pubblico meno colto. Eppure in questo volume, il cui titolo sembra sminuirne il contenuto attraverso l’uso del diminutivo, è racchiuso tutto il pessimismo cosmico dell’autore: da una parte l’uomo, nella sua misera condizione di infelicità, dall’altra la Natura “matrigna”, responsabile di averlo destinato alla sofferenza, e intorno le divinità, il Sole, la Luna, gli astri e altre figure fantastiche, tutte indifferenti di fronte al graduale deterioramento della specie umana, ormai schiacciata da una storia di progresso-regresso che la conduce verso l’inciviltà e la brutalità. In questo clima di declino esiste solo una cosa a cui aggrapparsi, la speranza, non importa se anch’essa si rivelerà illusoria.
I dialoghi riproposti nello spettacolo hanno una forte valenza comunicativa, tant’è che risulta vincente la scelta di dare maggiore spazio alla parola degli attori piuttosto che alla scenografia, la cui presenza risulta tuttavia incisiva nel ricostruire un’atmosfera immaginifica e fantastica (quasi impalpabile) grazie al lavoro di Mimmo Paladino: pochi gli elementi di scena, avvalorati dai costumi di Ursula Patzak e da luci (di Pasquale Mari) e suoni (di Hubert Westkemper). La rappresentazione affascina e diverte, grazie soprattutto alla recitazione di alcuni interpreti eccezionali; scorre decisamente meglio il secondo tempo, mentre il primo sembra essere appesantito dal troppo testo, probabilmente reso “faticoso” dalla narrazione di Paolo Graziosi, nei panni di Giove, la cui recitazione è un po’ forzata, ancora legata a un tipo di teatralità enfatica – superata – e che, soprattutto ai tanti giovani in sala, risulta artificiosa e difficile da seguire (da aggiungere, purtroppo, i troppi vuoti di memoria mal gestiti).
Decisamente convincenti e magistrali, invece, gli altri attori, impegnati a rivestire ognuno più di un ruolo. In primis Renato Carpentieri, la cui interpretazione è sobria, leggera e coinvolgente, lo ricordiamo in particolare nei panni del filosofo Plotino; d’altronde l’attore è avvezzo a questo genere di teatro avendo egli stesso ideato e mandato avanti per 11 anni la rassegna “Museum” (ahimè ormai interrotta), progetto allestito nel Museo di San Martino di Napoli che proponeva sale teatrali dedicate ad opere non teatrali per raccontare figure di artisti vari, quali letterati, pittori, scultori, ma anche registi, attori, drammaturghi.
Rilevanti in scena anche Iaia Forte, la ricordiamo tra le altre in una seducente ed energica Moda, Paolo Musio, che lancia in penombra il profetico grido disperato del Gallo Silvestre, e Giovanni Ludeno, ottima spalla in più di un’occasione (Ercole, venditore di Almanacchi, il genio di Tasso, Momo).
A prescindere dalla riflessione critica su questo spettacolo, bisogna dare atto a Martone di una cosa: ci troviamo di fronte a una di quelle iniziative che riescono a riavvicinare la gente alla letteratura, che hanno l’obiettivo di riproporre tali opere anche a spettatori più giovani, o meno interessati a questi testi, attraverso una modalità espressiva diversa e più diretta. Il Teatro della Pergola ospita continuamente lavori di questo tipo e, fortunatamente, interi gruppi scolastici vengono a vederli. È un modo per fare cultura in un’epoca in cui i ragazzi pongono sempre meno attenzione all’arte e alla lettura. Come per il “Furioso Orlando” (dall’opera di Tasso) di Baliani e Accorsi, anche questo spettacolo di Mario Martone ha tutto il diritto di girare ed essere proposto ad un pubblico più ampio (soprattutto alle scuole).
FIRENZE – Teatro della Pergola, 25 febbraio 2014
Mariagiovanna Grifi
OPERETTE MORALI – regia: Mario Martone; autore: Giacomo Leopardi; dramaturg: Ippolita di Majo; scene: Mimmo Paladino; costumi: Ursula Patzak; luci: Pasquale Mari; suoni: Hubert Westkemper; aiuto regia: Paola Rota; scenografo collaboratore: Nicolas Bovey; musica per il Coro di morti nello studio di Federico Ruysch: Giorgio Battistelli (Casa Ricordi – Milano); esecuzione Coro del Teatro di San Carlo diretto da Salvatore Caputo; interpreti: Renato Carpentieri, Victor Capello, Roberto De Francesco, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Giovanni Ludeno, Paolo Musio, Totò Onnis, Barbara Valmorin.