Nelle più recenti produzioni la soavità della favola convive con la tragedia del presente; la rivisitazione del cinema verità, con l’epopea western
Quella proposta allo Spazio Oberdan di Milano è ormai la settima edizione della rassegna “Nuovo Cinema Israeliano”, organizzata dal CDEC (centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e dalla Cineteca Italiana.
Uno storico israeliano del cinema, Dan Muggia, ha accompagnato lo spettatore lungo questa affascinate esplorazione e il regista Ruggero Gabbai, assieme a Sara Ferrari, docente di letteratura e cinematografia israeliana, a conclusione della rassegna hanno illustrato una realtà artistica che, quasi contraddicendo il rifiuto dell’immagine connaturato alla cultura ebraica, ha interpretato, sublimandola, la realtà politica e sociale del paese, inventandosi un linguaggio adeguato a restituirne i mille volti: i conflitti, la tradizione millenaria, il paesaggio, in una commistione di soavità e tragedia.
Si tratta, per lo più, di film che raramente arrivano sul grande schermo, ma che hanno invece conseguito riconoscimenti prestigiosi, specie all’estero, e che rappresentano un campione delle punte più avanzate della cinematografia israeliana.
Fra gli elementi formali che caratterizzano le opere proposte, si nota una felice, ricorrente declinazione di un genere che potremmo definire documentario, o cinema verità. Sul piano dei contenuti, ciò che sorprende è la spregiudicatezza critica – e autocritica.
Ambedue questi aspetti sono presenti in The Gatekeepers – I guardiani di Israele, di Dror Moreh, un film duro ma apprezzato, ancorché doloroso per il pubblico israeliano. In sei interviste, altrettanti ex dirigenti del servizio di sicurezza israeliano, lo Shin Bet, raccontano con disarmante franchezza le più delicate – e controverse – azioni delle quali sono stati protagonisti, confidandoci gli orrori e gli errori, ma anche i problemi di coscienza. La cronaca dei fatti, oltre che alle parole, è affidata a momenti filmici, dallo stupefacente sapore di autenticità, costruiti artificialmente partendo da foto d’archivio, elaborate con un uso sapiente di raffinate tecniche computerizzate.
The flat, di Arnon Golfinger si presenta anch’esso come una sorta di documentario: la cronaca fedele, condotta in prima persona dal regista, di un’indagine ad un tempo storica e familiare, che rimarrà però senza esito, come in un dramma pirandelliano. I temi della memoria e dell’identità si dipanano secondo una struttura di cinema verità, i cui episodi sono collegati da ricorrenti, ammiccanti topoi cinematografici (tapparelle che si arrotolano o si srotolano, offerte di fiori).
Un tema che sembra interessare la cultura israeliana è quello della diversità, declinato in una molteplicità di registri. Nel fascinoso, brevissimo Lost Paradise di Michal Brezise, dopo dieci minuti di pura, magica, appagante sessualità, scopriamo che i due giovani e bellissimi amanti sono un rabbino ortodosso e una giovane araba.
Una situazione speculare, ma diversamente tragica nel suo esito fatale, è quella di For my father (Weekend a Tel Aviv), di Dror Zahavi: qui un effimero ma autentico incontro d’amore fra un giovane palestinese, terrorista suicida suo malgrado, e una ragazza israeliana, insofferente delle imposizioni dell’ortodossia ebraica, offre l’occasione per un impietoso atto d’accusa, ugualmente rivolto verso ogni forma di integralismo religioso, sia islamico, sia ebraico. Un film che la critica, per l’imbarazzo, ha preferito stroncare.
Con la delicata favola intercontinentale Noodle, il regista Ayelet Menahemi estende all’estremo oriente l’impegno etico e sociale contro le diffidenze interrazziali, in forma accattivante ed emotivamente implicante, anche grazie alla efficace interpretazione del piccolo Chen Baoqi, il Noodle del titolo, silenzioso ma tenerissimo bambino cinese.
Room 514, opera prima di Sharon Bar-Ziv, vince la scommessa di far diventare cinema un testo sostanzialmente verbale. Girato in interni con una piccola videocamera a mano, con un budget risibile (15.000 euro), affronta anch’esso con coraggio, in un linguaggio filmico sobrio ed asciutto, il dibattito etico sulla repressione del terrorismo arabo, affidandone le ragioni, con trasparente simbolismo, alla dialettica fra maschile e femminile. Intrecciando con intelligenza il politico col privato, il film ripropone il perenne scontro tra verità e potere, ma è anche una metafora della composita società israeliana, in cerca di una sua identità.
Un altro tema, peraltro insito da sempre nell’ebraismo, è quello del viaggio, presente sotto traccia nella poetica del cinema israeliano: in modo più esplicito in The flat e Noodle, ma anche in Weekend a Tel Aviv, e nel breve Aya, ancora di Michal Brezise, storia di un fugace incontro, basato su un buffo equivoco, che si consuma in un tragitto in auto fra l’aeroporto di Tel Aviv e Gerusalemme.
In questo panorama occupa un posto a parte The Ballad of the Weeping Spring di Benny Torati, sospeso tra favola ed epopea western, ambientato in un paese e in un tempo imprecisati, ove gli strumenti musicali sono maneggiati come fucili, con inquadrature che sono un trasparente omaggio al cinema di Sergio Leone. Qui non è la terra, ma l’arte, la musica, a creare un’identità, e il pubblico israeliano ci si è identificato, cullato dal magico, arcaico sapore della storia e delle sue immagini.
Un cinema, quello israeliano, di notevole qualità artistica. Ma ciò che più stupisce è la spregiudicata attitudine alla critica – anche questa, peraltro, una caratteristica connaturata alla Weltanschauung e alla cultura ebraica – tanto più stupefacente per lo spettatore italiano che, malgrado la libertà di stampa e di opinione sancita dalla nostra Costituzione, si è ormai assuefatto al sinistro, ricorrente rituale del segreto di stato.
Claudio Facchinelli
Quella proposta allo Spazio Oberdan di Milano è ormai la settima edizione della rassegna “Nuovo Cinema Israeliano”, organizzata dal CDEC (centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e dalla Cineteca Italiana.
Uno storico israeliano del cinema, Dan Muggia, ha accompagnato lo spettatore lungo questa affascinate esplorazione e il regista Ruggero Gabbai, assieme a Sara Ferrari, docente di letteratura e cinematografia israeliana, a conclusione della rassegna hanno illustrato una realtà artistica che, quasi contraddicendo il rifiuto dell’immagine connaturato alla cultura ebraica, ha interpretato, sublimandola, la realtà politica e sociale del paese, inventandosi un linguaggio adeguato a restituirne i mille volti: i conflitti, la tradizione millenaria, il paesaggio, in una commistione di soavità e tragedia.
Si tratta, per lo più, di film che raramente arrivano sul grande schermo, ma che hanno invece conseguito riconoscimenti prestigiosi, specie all’estero, e che rappresentano un campione delle punte più avanzate della cinematografia israeliana.
Fra gli elementi formali che caratterizzano le opere proposte, si nota una felice, ricorrente declinazione di un genere che potremmo definire documentario, o cinema verità. Sul piano dei contenuti, ciò che sorprende è la spregiudicatezza critica – e autocritica.
Ambedue questi aspetti sono presenti in The Gatekeepers – I guardiani di Israele, di Dror Moreh, un film duro ma apprezzato, ancorché doloroso per il pubblico israeliano. In sei interviste, altrettanti ex dirigenti del servizio di sicurezza israeliano, lo Shin Bet, raccontano con disarmante franchezza le più delicate – e controverse – azioni delle quali sono stati protagonisti, confidandoci gli orrori e gli errori, ma anche i problemi di coscienza. La cronaca dei fatti, oltre che alle parole, è affidata a momenti filmici, dallo stupefacente sapore di autenticità, costruiti artificialmente partendo da foto d’archivio, elaborate con un uso sapiente di raffinate tecniche computerizzate.
The flat, di Arnon Golfinger si presenta anch’esso come una sorta di documentario: la cronaca fedele, condotta in prima persona dal regista, di un’indagine ad un tempo storica e familiare, che rimarrà però senza esito, come in un dramma pirandelliano. I temi della memoria e dell’identità si dipanano secondo una struttura di cinema verità, i cui episodi sono collegati da ricorrenti, ammiccanti topoi cinematografici (tapparelle che si arrotolano o si srotolano, offerte di fiori).
Un tema che sembra interessare la cultura israeliana è quello della diversità, declinato in una molteplicità di registri. Nel fascinoso, brevissimo Lost Paradise di Michal Brezise, dopo dieci minuti di pura, magica, appagante sessualità, scopriamo che i due giovani e bellissimi amanti sono un rabbino ortodosso e una giovane araba.
Una situazione speculare, ma diversamente tragica nel suo esito fatale, è quella di For my father (Weekend a Tel Aviv), di Dror Zahavi: qui un effimero ma autentico incontro d’amore fra un giovane palestinese, terrorista suicida suo malgrado, e una ragazza israeliana, insofferente delle imposizioni dell’ortodossia ebraica, offre l’occasione per un impietoso atto d’accusa, ugualmente rivolto verso ogni forma di integralismo religioso, sia islamico, sia ebraico. Un film che la critica, per l’imbarazzo, ha preferito stroncare.
Con la delicata favola intercontinentale Noodle, il regista Ayelet Menahemi estende all’estremo oriente l’impegno etico e sociale contro le diffidenze interrazziali, in forma accattivante ed emotivamente implicante, anche grazie alla efficace interpretazione del piccolo Chen Baoqi, il Noodle del titolo, silenzioso ma tenerissimo bambino cinese.
Room 514, opera prima di Sharon Bar-Ziv, vince la scommessa di far diventare cinema un testo sostanzialmente verbale. Girato in interni con una piccola videocamera a mano, con un budget risibile (15.000 euro), affronta anch’esso con coraggio, in un linguaggio filmico sobrio ed asciutto, il dibattito etico sulla repressione del terrorismo arabo, affidandone le ragioni, con trasparente simbolismo, alla dialettica fra maschile e femminile. Intrecciando con intelligenza il politico col privato, il film ripropone il perenne scontro tra verità e potere, ma è anche una metafora della composita società israeliana, in cerca di una sua identità.
Un altro tema, peraltro insito da sempre nell’ebraismo, è quello del viaggio, presente sotto traccia nella poetica del cinema israeliano: in modo più esplicito in The flat e Noodle, ma anche in Weekend a Tel Aviv, e nel breve Aya, ancora di Michal Brezise, storia di un fugace incontro, basato su un buffo equivoco, che si consuma in un tragitto in auto fra l’aeroporto di Tel Aviv e Gerusalemme.
In questo panorama occupa un posto a parte The Ballad of the Weeping Spring di Benny Torati, sospeso tra favola ed epopea western, ambientato in un paese e in un tempo imprecisati, ove gli strumenti musicali sono maneggiati come fucili, con inquadrature che sono un trasparente omaggio al cinema di Sergio Leone. Qui non è la terra, ma l’arte, la musica, a creare un’identità, e il pubblico israeliano ci si è identificato, cullato dal magico, arcaico sapore della storia e delle sue immagini.
Un cinema, quello israeliano, di notevole qualità artistica. Ma ciò che più stupisce è la spregiudicata attitudine alla critica – anche questa, peraltro, una caratteristica connaturata alla Weltanschauung e alla cultura ebraica – tanto più stupefacente per lo spettatore italiano che, malgrado la libertà di stampa e di opinione sancita dalla nostra Costituzione, si è ormai assuefatto al sinistro, ricorrente rituale del segreto di stato.
Claudio Facchinelli