E siamo così arrivati all’ultimo reportage del nostro inviato al Mittelfest di Cividale, Claudio Facchinelli
Cividale, 27 luglio 2014 – Mettiamo insieme un ensemble barocco, un guitto vagabondo, i cunti, Haendel, un pizzico di John Cage: o vien fuori una roba indigeribile, o un inatteso godimento. Con Le maghe e l’isola meravigliosa, visto ieri, sabato, si è verificato il secondo caso: la ricetta messa insieme da Vanni De Lucia e dal Cafebaum Banda Barocca funziona e diverte. E il recensore annota con interesse la postura del violino barocco, appoggiato morbidamente sulla spalla; il violoncello stretto fra le gambe, senza puntale; la maliziosa presenza scenica – oltre alla qualità vocale – del soprano; l’incursione sonora di Cage; i disegni di impronta naïf di Massimilano Gosparini; buon ultimo, il porgere accattivante, popolaresco di Vanni, in marsina, stivali e camicia rossa, che racconta in ottava rima le avventure di Rinaldo e della maga Alcina.
Anche quest’anno la collaborazione col Festival dei Due Mondi ha consentito la prestigiosa ospitalità di una regia di Ronconi, Danza macabra, presentata a Spoleto alla fine dello scorso mese di giugno. Non è questa la sede per una seria disamina critica dello spettacolo. Mi limito a rilevare l’ottima qualità degli interpreti (Adriana Asti, Giorgio Ferrara, Giovanni Crippa); il fascino funereo della scenografia, con letti che sembrano catafalchi; il vezzo ronconiano del mobilio che scorre sul palcoscenico. In più, una lettura registica del testo di Strindberg (nello stesso anno, il 1900, Čechov stava scrivendo Tre sorelle) che lo trasforma in una grottesca storia di vampiri.
Alma_ Ata, ultimo spettacolo della giornata, si presenta come l’esito di una ricerca, seria quanto ambiziosa. Tommaso Monza, che l’ha condotta, ha poco più di trent’anni, e una formazione di scultore, prima che di danzatore. L’idea portante del suo progetto, denominato ROD (una radice russa, род, presente in parole quali: genitore, родитель; nascere, родиться; patria, родина), consiste nell’instaurare un rapporto di reciproca collaborazione artistica e conoscenza con un paese, il Kazachstan, del quale Alma-Ata è stata la capitale, tanto esteso (quasi un terzo dell’Europa) quanto poco conosciuto; ma anche nell’innervare la danza moderna con la tradizione culturale di un popolo che, fino a non molto tempo fa, era sostanzialmente nomade, e la sua comunicazione creativa era affidata principalmente all’espressione corporea. Obiettivi generosi, di ampio respiro, da considerare con rispetto, ancorché, al momento, lontani da una compiuta realizzazione. Da notarsi la suggestiva presenza in scena del talentoso musicista kazacho Yedil Khusseinov (il suo nome – mi spiega – si dovrebbe tradurre in italiano con “Attila”). Occhi a mandorla, baffi alla calmucca, con indosso un costume della sua terra, Yedil accompagna l’azione coreutica suonando la musica, di cui è autore, su strumenti tradizionali di legno: flauti, altri simili a una cetra, uno scacciapensieri, un’ocarina.
Oggi, domenica, l’ultima giornata di Mittelfest si apre con la deliziosa esibizione dell’ensemble Combattimento Amsterdam intitolata “Barocco, ultimo stile d’Europa”: brani di squisita fattura di autori italiani e stranieri, alcuni poco conosciuti eppur di grande talento, come il dilettante olandese Unico Willem van Wassenaer, che sembra riecheggiare il nostro Vivaldi. Ma l’attenzione del pubblico è attratta inevitabilmente dalla fascinosa, monumentale, inconsueto chitarrone, mezzo chitarra e mezzo arpa, con funzione di basso continuo, sistemato in proscenio, di fianco al clavicembalo.
Con “La parola padre”, scritto e diretto da Gabriele Vacis, si torna al tema del conflitto generazionale, qui nel rapporto fra padre e figlia, in una prospettiva di respiro europeo, sottolineata dal sottotitolo, che traduce “padre” in tre diversi idiomi: “ojcec, tatko, баща”. Lo spettacolo si fa apprezzare per l’originalità della drammaturgia, che affida la funzione narrativa a una pluralità di voci, di lingue, di tecniche espressive. Sei attrici – tre italiane, una bulgara, una macedone una polacca – raccontano frammenti della loro vita, il rapporto col padre, spesso conflittuale, ma anche con Tito, col comunismo, con Alessandro il Macedone. Lo spettacolo è spigliato, ai limiti dell’ipercinetica: un muro fatto di bottiglioni di plastica viene distrutto, ricostruito e di nuovo abbattuto; le ragazze si cambiano d’abito a vista; una viene cosparsa di un fango cosmetico; la bulgara, seduta al PC proietta dei video su un piccolo schermo, che ogni tanto abbandona per cantare, accompagnandosi con un harmonium portativo. Ma un pregio non secondario dello spettacolo sta nel suo sapore verità, certo dovuta ad una sapiente drammaturgia, ma anche al fatto che, in scena, vediamo ragazze attraenti addirittura affascinanti, eppure normali, autentiche: ciò che di più lontano esiste dal personaggio della velina che, purtroppo, costituisce il modello estetico e comportamentale di legioni di ragazzine, un messaggio etico da non sottovalutare.
Stefano Bollani, il geniale pianista che il giorno prima, con “Piano solo” aveva entusiasmato il folto pubblico accorso al teatro Giovanni da Udine con le sue funamboliche improvvisazioni, oggi si riproponeva con “La regina Dada”, da lui scritto e interpretato assieme a Valentina Cenni. La ricchezza dell’apparato scenotecnico e qualche idea non banale di regia non compensavano però la modestia del testo, né la dignitosa ma non esaltante prestazione attorale della Cenni. È quasi pleonastico riconoscere a questo musicista non convenzionale un indiscutibile, trascinante talento musicale, ed anche un sua personale sapienza spettacolare – non solo le scarpe da ginnastica e la camicia fuori dai calzoni con cui ama esibirsi, ma un porgere musicale originale e accattivante – tuttavia lo spettacolo non funzionava: il riferimento al dadaismo rimaneva pallido, incerto; e più d’uno, sconcertato e deluso, usciva dalla sala. Raccontano che quando il grande pianista Ignacy Paderewski, divenuto nel ’19 primo ministro della ricostruita Polonia, aveva chiesto a un suo collaboratore cosa pensasse di un suo discorso appena pronunciato, si sia sentito rispondere, con deferenza: “Maestro, la preferisco al pianoforte”.
A mezzanotte, il tema della Grande Guerra ricompare per l’ultima volta, affidato a un film di Charlie Caplin del ’18, “Shoulder Arms”. La vita di trincea, il fango, l’irrazionale logica della guerra vengono declinate con l’umorismo del soldatino Charlot, in quel registro stralunato ed onirico a lui caro (anni dopo, anche l’irresistibile satira su Hitler de “Il grande dittatore” sarà affidata a una sorta di sogno), e chiude in leggerezza una celebrazione dovuta, ma non indolore.
A conclusione di questo reportage a puntate, inevitabilmente incompleto, azzardo un sintetico – e provvisorio – bilancio di quanto visto, rilevando con soddisfazione lo spazio offerto a diverse realtà giovani; la presenza di linee programmatiche non cervellotiche; l’esplorazione di quella “Cartografia della bellezza inquieta” che titolava l’introduzione di Franco Calabretto, condotta – anche grazie all’apporto di Rita Maffei – all’insegna della cultura e dell’intelligenza. Certo, tutto è perfettibile, ma l’augurio è che si prosegua su questa strada.
Claudio Facchinelli