“Miseria e Nobiltà”: Cirillo restituisce a Scarpetta giusta dignità d’autore

Portare in scena un testo come “Miseria e Nobiltà”, l’unico scritto interamente da Eduardo Scarpetta, già abbondantemente sfruttato da oltre un secolo di rappresentazioni di vario valore e lignaggio, nonché misurarsi con un’ingombrante trasposizione cinematografica come quella che vide protagonista Totò, e che ne ha irrimediabilmente rappresentato una pietra di paragone per l’immaginario collettivo, rappresentava di sicuro una sfida non facile. Cosa può ancora offrire di nuovo al pubblico, ma anche agli interpreti, un copione che, soprattutto a Napoli, è conosciuto a menadito, quanto e forse anche più dell’eduardiano “Natale in casa Cupiello”? E, soprattutto, come è possibile restituirlo, pur tramite una rilettura contemporanea, con dignità e rispetto, quindi senza (cosa che recentemente accade spesso) per forza arrivare a stravolgerlo e a dilaniarlo?mn1

La risposta è nella nuova regia di Arturo Cirillo, il quale, nel suo riprendere il discorso già aperto 14 anni fa con l’autore napoletano, di cui mise in scena “Mettiteve e ffà l’ammore cu’mme”, riesce a ripulire e a scorticare tutta quella maniera che in questi anni si è stratificata su un copione che, quasi scopriamo ora grazie a lui, non solo è la straordinaria macchina comica che tutti riconosciamo, ma anche un vero e proprio testo drammatico, con l’accezione più filologicamente idonea che si possa dare a questo termine. Quello che colpisce particolarmente è lo studio impeccabile che il regista, coadiuvato da una compagnia di altrettanto impeccabili interpreti, dedica ai personaggi. Per una volta, infatti, “Miseria e Nobiltà” appare come un dramma collettivo, in cui la figura di Felice Sciosciammocca riesce a vivere la sua dignità ed umanità di personaggio senza essere ad ogni costo l’ingombrante protagonista, riducendo all’osso i lazzi e gli ammiccamenti al pubblico, grazie anche all’intelligenza dell’attore Tonino Taiuti. Si ride amaro, assistendo alle vicende di questi poveri nullatenenti, e, soprattutto, si ha la consapevolezza, sempre grazie all’intuito del regista, a cui fanno da valido supporto il costumista Gianluca Falaschi e lo scenografo Dario Gessati, di quanto la finzione della nobiltà sia ancora più illusoria e disperata, un sogno incubo dal quale si svegliano, sul finale, con un’irrimediabile divisione con quel mondo al quale non potranno mai appartenere.

mn2Tra le perfette interpretazioni di tutto il cast, una nota di particolare merito crediamo vada alla compagine femminile, in primis la sempre eccellente Milvia Marigliano, che disegna una Luisella inedita, drammatica, la diversa tra i diversi, che si muove amaramente ironica con distaccata amarezza; di grande impatto anche la vulcanica Sabrina Scuccimarra, assolutamente a proprio agio nel disegnare una Concetta ispida ed autoritaria, che non colora con quella che sarebbe la più facile delle caratterizzazioni; la giovanissima Viviana Cangiano è una Pupella inquietante, affamata di cibo e di riscatto, per i quali assume spesso aspetti minacciosi; assolutamente distante da ogni modello preesistente la Gemma interpretata da Valentina Curatoli, che ci appare come una ridicola parvenu, volgare e mediocre, degna figlia di Semmolone, ed indovinato è anche il disegno dell’arida e spigolosa Bettina interpretata da Giorgia Coco. Sul versante maschile, oltre al già citato Taiuti, Giovanni Ludeno (Pasquale)che si conferma uno degli attori più interessanti della sua generazione, lo stesso Cirillo, che interpreta in maniera eccellente un chapliniano Semmolone, ed Emanuele D’Errico che, e questa è ulteriore prova di intelligenza registica, interpreta un Peppiniello adolescente, prodromo del Nennillo Cupiello, quasi a sottolineare l’impercettibile legame fra le due opere ed i due autori. Un discorso a parte, invece, l’utilizzo di due bravi attori, Gino De Luca e Rosario Giglio, nel coprire ognuno due ruoli, forse la scelta più ardita da parte della regia, poiché, in un gioco di travestimenti e di scambi di ruolo, l’escamotage risulta un po’ fuorviante, e va detto che se De Luca è sicuramente più a suo agio nel ruolo del gagà rispetto a quello del cameriere Vincenzo, Giglio, con la sua recitazione straniante, risulta convincente e divertente come “padrone di casa”, ma un po’ opaco come il lussurioso Bebè. Concludono il cast, Roberto Capasso, da quattordici anni stretto collaboratore in quasi tutte le regie di Cirillo, qui interprete del cameriere Biase, una sorta di poetica marionetta di servo quasi-muto, ed il giovane Christian Giroso nel ruolo del marchesino Eugenio. Risate, dramma e poesia, per una visionaria rilettura scenica che trova nel pubblico la giusta appagante approvazione.

Gianmarco Cesario

Napoli, Teatro San Ferdinando – 21 Dicembre 2016

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