Macbettu: il suono delle pietre; l’odore discreto della cenere

Un classico ridipinto nei colori di tenebra di una civiltà arcaica

Alla messinscena dei classici in abiti moderni siamo abituati da tempo: a volte si tratta di soluzioni drammaturgiche stimolanti, a volte meno comprensibili. Ma l’intervento che Alessandro Serra e la sua incredibile squadra di attori effettuano sul Macbeth è qualcosa di profondamente diverso. Non si tratta, infatti, di una trasposizione della tragedia shakespeariana in un contesto odierno, ma semmai, al contrario, di un’operazione di scavo, che ne porta alla luce le radici primigenie, arcaiche. E lo strumento di questa ricognizione, quasi archeologica, è la tradizione e la cultura barbaricina. Neppure la scelta di far interpretare da attori maschi en travesti le figura femminili (Lady Macbeth, le streghe) può considerarsi un semplice recupero della tradizione elisabettiana.

Alla fine degli anni Sessanta ho avuto la ventura di visitare la Barbagia; non da turista, ma entrando nelle case di Sarule, di Orgosolo, incontrando anche, senza rendermene conto, dei latitanti; ma specialmente partecipando alle consuetudini rituali di una tradizione familiare, patriarcale, ove mi sembrava di ritrovare l’eco dei poemi.

Non so cosa è rimasto di quel mondo. Non ho più avuto la ventura – o forse il coraggio – di ritornarci per verificarlo; ma quei ricordi sono emersi con vivezza assistendo al Macbettu, a quelle azioni avvolte nella semioscurità; ascoltando parole di una lingua estranea, che spesso si stagliavano sullo sfondo di un chiacchiericcio indistinto, impastati coi sorprendenti effetti musicali sprigionati dalle pietrose sculture sonore di Pinuccio Sciola. Ma la pietra, nella sua scabra struttura primitiva, è presente anche nella irregolare, precaria pila che viene innalzata scena dopo scena; e le guardie del re Duncan dormono con la testa appoggiata su una pietra, secondo l’uso dei pastori barbaricini. L’abbigliamento e la postura delle streghe si direbbe mutuato dal Carnevale di Mamoiada; ma si moltiplicano, trasformandosi in una sorta di coro, invadente e dispettoso; le loro figure curve e sbilenche richiamano l’umanità minuta di Pieter Bruegel il Vecchio, o i conturbanti, scostanti mostriciattoli di Hieronymus Bosch. (E chissà che il Bardo non abbia avuto l’occasione, ai suoi tempi, di imbattersi nelle opere dei due maestri olandesi). Ma neppure queste citazioni, popolari o colte, sono da leggere come inserimenti etnografici, o di storia dell’arte, perché si amalgamano e danno spessore al testo shakespeariano, asciugato e reso terragno nella traduzione in sardo, pur sostanzialmente rispettato nello spirito e nella lettera. Un tappeto di cenere ricopre interamente la scena, e si solleva in nuvole o crea una sorta di caligine, con un effetto simile a quello (abusato) della macchina del fumo; ma la cenere, congenita per sua natura alla storia dell’umanità, conferisce all’azione drammatica un ulteriore, fascinoso sapore arcaico. Straziante il rumore del pane carasau, distrutto e frantumato sotto i piedi di Banquo, che cammina, che cammina incurante sul tavolo del banchetto.

Molte sarebbero i momenti e le soluzioni teatralmente felici da riportare: dal pasto dei maiali (una mezza dozzina di attori a torso nudo, che grufolano a quatto zampe attorno a un catino, a una Lady Macbeth impersonata da un giovane altissimo, vagamente efebico, dai lunghissimi capelli e barba. Particolarmente efficace ed esaltante il finale, ove al progressivo calo delle luci, fino al buio totale, corrisponde il fragore, sempre più violento e assordante, di colpi sferrati sulle plance del fondale: un segno stilistico che, richiamando l’incipit dello spettacolo, sembra chiudere un cerchio.

Ma non è facile restituire con la parola il fascino di un lavoro che si esprime in un linguaggio così coerentemente e genuinamente teatrale, perfetto nella sua atipicità: da respingere o da amare incondizionatamente, ma giustamente riconosciuto come spettacolo dell’anno da autorevoli voci critiche.

Claudio Facchinelli

 

MACBETTU di Alessandro Serra, tratto da Macbeth di William Shakespeare.

Con: Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino.

Traduzione in sardo e consulenza linguistica di Giovanni Carroni; collaborazione ai movimenti di scena di Chiara Michelini, musiche di Marcellino Garau con le pietre sonore di Pinuccio Sciola

Regia, scene, luci, costumi di Alessandro Serra

Produzione: Sardegna Teatro, in collaborazione con compagnia Teatropersona e con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola | Cedac Circuito Regionale Sardegna

 

Visto al Festiva delle Colline Torinesi, Fonderie Limone, il 18 giugno 2018

 

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