Lasciateci divertire! Breve manifesto per un teatro che non rompa i…

I sentieri del teatro, lungo i quali per mestiere e per passione vado peregrinando da un po’ di anni, non sono sempre del tutto agevoli. Rincorrendo il teatro di ricerca, mi capita di imbattermi in spettacoli dove le note di regia, alle quali mi rivolgo per avere lumi su una messinscena di cui ho capito poco, sono scritte in una prosa ancor più criptica e destrutturata; posso anche ipotizzare l’esistenza di un percorso serio, di un’idea perseguita con passione, ma che non riesco a decifrare: solipsismo dei soggetti creativi, o un problema mio, causato da un divario generazionale di anno in anno sempre più rilevante?

Ci sono poi quelli che, sostenuti da un consolidato consenso critico, quale che sia il testo che propongono, mettono in scena se stessi, piegando anche i classici alla loro personale, invasiva poetica; o esibiscono il loro privato come un’arma impropria. Anche in questi casi, fatico a cogliere il senso dell’operazione, e affiora spontanea l’impressione di trovarmi semplicemente di fronte a una smisurata, compiaciuta autoreferenzialità.

Per fortuna, ogni tanto, più spesso in sale teatrali che in passato frequentavo di rado (forse a causa di uno snobismo che l’età deve avere smussato), capita di assistere alla messinscena di testi scritti bene, magari collaudati da oltre cinquant’anni; con attori bravi e una regia che li valorizza; insomma, di provare un piacevole, riposante godimento. L’ultima occasione me l’ha fornito Dieci piccoli indiani… e non rimase nessuno, di Agatha Christie, recentemente visto al teatro Carcano di Milano, con attori di solida scuola, come Ivana Monti, Alarico Salaroli, Luciano Virgilio.

E allora mi sono tornate alla mente due battute, scritte a alla distanza di quasi un secolo l’una dall’altra, ma che, con stili diversi, esprimono il medesimo concetto.

La prima è di Guido Gozzano.

 

“E la Duse ci piace?” – “Oh! mi m’antendô
pà vaire… I negô pà, sarà sublime,

ma mi a teatrô i vad për divertime…”.

 

L’altra nasce dalla penna, intinta nell’acido prussico, di Gigi Lunari, uomo di teatro geniale ma dispettoso, e la traggo da un suo libro che gli valse un processo.

 

“Noi, porco d’un dio”, disse scandendo bene le parole in modo che non ci fossero dubbi, “vogliamo fare un teatro che non gli rompa i coglioni a quelli che ci vanno a vederlo”.

 

A costo di apparire rozzo, miope e reazionario, formulerei sommessamente un voto: lasciamo che il pubblico (e possibilmente anche il recensore) qualche volta si diverta.

O almeno, che non si rompa i coglioni.

Claudio Facchinelli

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