Moni Ovadia

La maestria istrionica di Moni Ovadia

Quando la parola scritta si affranca dalla pagina e diventa teatro

C’era una volta la prosa alla radio.

Quelli della mia età, adolescenti alla fine degli anni Cinquanta, hanno scoperto il teatro di Čechov, di Lorca, di Ibsen attraverso la radio. Erano produzioni molto accurate, affidate alla splendida, compagnia di prosa della Rai. Poi, con l’avvento e la diffusione della televisione, coi primi sceneggiati televisivi di Anton Giulio Majano, la prosa alla radio è andata via via scemando. Era rimasta la tradizione delle letture, affidate ad attori di grande professionalità: Il racconto di mezzanotte, credo ancora ai tempi del Terzo programma; poi, su Radio 3, Storie alla radio e infine, da qualche anno e a tutt’oggi, Ad alta voce.

Grandi testi, e voci suggestive: ricordo Lo straniero, di Camus, letto da Marco Baliani; L’isola di Arturo, con Iaia Forte; Moby Dick, con Marco Paolini; Pinocchio, con Paolo Poli. Una voce che racconta, si sa, è già una forma di teatro, e può esercitarne tutto il fascino.

Ma Il nome della rosa, che si ascolta da qualche settimana nella lettura di Moni Ovadia (un non casuale omaggio a Umberto Eco), è qualcosa di ancora diverso.

La maestria ruvidamente istrionica di Moni – sia detto senza offesa: lui stesso ama definirsi guitto – si declina e scompone in mille rivoli, in una moltitudine caleidoscopica di voci. Ognuno dei personaggi del romanzo è caratterizzato da un riconoscibile registro vocale, da una specifica inflessione linguistica o dialettale, che si ricompone poi, con naturalezza, nella voce di Adso da Melk, il giovane narratore, o in quella pacata ed autorevole di Guglielmo di Baskerville.

Una forma altra, originale e fantasiosa di lettura interpretativa; un modo nuovo di restituire vocalmente, teatralmente la pagina scritta. Un piacere raro per le orecchie, e non soltanto.

 

Claudio Facchinelli

 

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