“Jobs” – Il nume tutelare dell’era digitale regredisce allo status di ottimo manager, solo un po’ nevrotico.

“Quando riesci ad arrivare al cuore di qualcuno, non c’è più limite.” Questo pensava Steve Jobs quando progettava tecnologia concettuale e questo è quello che avrebbero dovuto tenere a mente Matt Whiteley e Joshua Michael Stern, rispettivamente sceneggiatore e regista della sua biografia.

Ashton-Kutcher-jOBsLe basi per un film che appassionasse il mondo c’erano tutte: molti avrebbero avuto voglia di curiosare nella vita di un genio del nostro tempo, che ci ha lasciato da poco e che si è avvalso per giunta di un carattere irascibile e di drammi familiari molto profondi. Una mente complessa e una vita difficile: perle cinematograficamente rare che si sono perse, purtroppo, nelle mani di chi ha effettivamente realizzato la pellicola.

Il film è ben strutturato e piacevole alla vista, ma la genialità dell’imprenditore viene raccontata solo attraverso i discorsi alle squadre di informatici, non c’è alcuna drammatizzazione visiva, le sue parole appaiono fredde, i concetti lanciati nello spazio senza una meta, eppure ci vengono mostrati i suoi adepti che si emozionano, si alzano in piedi con ‘i lucciconi’ agli occhi, partono le standing ovation e la musica, (composta da Lucas Vidal), sale di tono e di volume, rendendo il tutto straordinariamente ridondante.

Ma mentre le scene che ne descrivono l’inventiva riescono ad essere allo stesso tempo superficiali e pompose, quelle che ne dovrebbero raccontare vita e  ossessioni, (matrici primitive del suo particolare modo di pensare), risultano banali e sbrigative.

L’uomo di cui si parla è il simbolo della creatività legata all’angoscia, ha sofferto della ‘sindrome da abbandono’ dovuta alla sua adozione, sviluppando un carattere respingente e problemi di socializzazione che lo hanno accompagnato per tutta la vita, ha conosciuto e abbracciato la cultura ‘hippie’, per poi rifiutare qualsiasi responsabilità o contatto umano e finendo con il diventare, grazie alle sue idee innovative, eroe incontrastato degli ex ‘yuppies’ convertiti all’informatica di charme.

Di tutto questo però, nel film, resta poco, e una delle scene iniziali risolve così la complessità della sua storia: Jobs è steso su un prato con la fidanzata e un amico, ha preso una pasticca di extasy, guarda il cielo deformarsi, e mentre una lacrima scende sul suo viso, si chiede come si possa abbandonare un figlio. Fine.

Di quello che può davvero esserci nella sua testa, per le restanti due ore di pellicola, non se ne sa più niente e risulterebbe davvero difficile avvicinarsi umanamente al personaggio, se non fosse per l’onesto lavoro di Ashton Kutcher, interprete cui è affidata la parte di Jobs.

La scelta di  Kutcher, (ex modello – ex attore di commedie demenziali – ex marito di Demi Moore), sembrava inizialmente un po’ avventata, dovuta soprattutto al glamour che lo circonda, ma sorprendentemente, la sua interpretazione risulta un po’ goffa e caricaturale solo quando cerca di riprodurre troppo fedelmente le strane movenze di Jobs, diventa invece meno strettamente imitativa e più sincera quando può lasciarsi andare al pianto o all’ira, nelle scene più oggettivamente drammatiche, quelle che da sempre aiutano l’attore bravo ma non geniale a migliorare la propria performance e a far si che il pubblico, finalmente, empatizzi con il personaggio.

Nonostante il suo impegno però, il taglio affaristico del film nega il giusto spazio non solo alle contraddizioni personali dell’uomo, ma soprattutto a quelle dell’inventore che ha posto un importantissimo quesito all’intera umanità: è giusto che in futuro (ormai presente) non si possa fare a meno del computer e di tutte le sue sottocategorie?

Non c’è nessuno, per l’intera durata del film, che si chieda o meglio, gli chieda se quello che sta facendo sia eticamente giusto, se quella che lui chiama “libertà dell’individuo di progredire attraverso un computer ‘intuitivo’, ‘precognitivo’, un elettrodomestico che sappia quello che vuoi fare prima ancora di volerlo fare, un’estensione del corpo umano” sia vera libertà o piuttosto una guida silente all’omologazione del pensiero.

Omologazione del pensiero… Jobs la detestava, eppure, in un certo senso, ne stava sintetizzando in laboratorio la formula moderna.

Ma questa pellicola narra di altre avventure, soprattutto di business e software. E allora si assiste ad una delle scene madri involontariamente più buffe della storia del cinema moderno: invece di chiedersi quali siano le reali possibilità e implicazioni sociologiche della futura rivoluzione digitale, i collaboratori/adoratori di Jobs vengono sottoposti ad una prova durissima: ‘Il Capo’ pretende nientemeno che la riduzione del volume di una ‘scheda madre’…

Ecco allora i volti pietrificati degli informatici che guardano la terribile ‘creatura’ mentre si staglia drammaticamente in primo piano, maestosa, per poi passare di mano in mano in ‘slow-motion’, intanto che la musica di accompagnamento si fa epica.

E mentre sullo schermo si consuma ‘il melodramma della scheda madre’, il pensiero corre al vero Jobs, e a cosa avrebbe detto guardando questo film. Forse avrebbe semplicemente bruciato la pellicola, mandando tutti i presenti a navigare con il nuovo ‘iPad Air’, ma pensando in realtà “Baratterei tutta la mia tecnologia per una serata con Socrate”.  

 (Steve Jobs, Newsweek, 29 ottobre 2001)

 

Elisabetta De Luca 

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