Il tramonto dei castrati e il decollo dei soprani
“Voce dal sen fuggita” vola altissimo

Il mondo musicale è strano per chi lo viva al suo esterno; ma dalla sua stranezza esso comunque si tinge di una sua regolarità che si potrebbe definire “dualistica”.

Già, perché ogni epoca musicale ha sempre vissuto entro cicli temporali (che possono, per mera comodità, coincidere con il secolo) nei quali due personalità di spicco si sono caratterizzate per aver addensato attorno a se modi di pensare, vivere, ascoltare e concepire la musica.

Come l’epoca barocca aveva visto spiccare le due personalità di Haendel e Bach, l’una salottiera, elegante e cortigianamente festaiola, l’altra didattica, austera o “professorale”; il settecento aveva visto contrapporsi le scuole dei musicisti italiani e quelli d’oltralpe come Gluck e Piccinni; Mozart e Salieri (tanto per citarne alcuni) o l’ottocento le grandi personalità di verdi e Wagner, così la vocalità era fortemente influenzata dal gusto e dalla diversità di concezione musicale e gusto del pubblico.

Ecco dunque “Voce dal sen fuggita”, ospitato nella splendida cornice della Domus Ars, all’interno del Festival Internazionale del ‘700 musicale napoletano che il maestro Enzo Amato ha portato in splendida forma alla XXI edizione, ospitando fior di artisti in bellissimi scrigni d’arte. Un programma musicale di ricerca, ma anche popolare, che ha soddisfatto i gusti di tutti i palati.

In tal senso si orienta la messa in scena ideata da Antonio Mocciola, sulle cui qualità drammaturgiche tante volte si è scritto mettendone in risalto le doti e l’indubbio talento capaci di evocare in chiave di un eterno presente le forze carsiche che animano il pensiero di ogni tempo traendole fuori dalla polverosità di un passato da studioso di musicologia e facendole rivivere con una freschezza godibile anche da parte del non addetto ai lavori.

Voce dal sen fuggita” è la coltissima traduzione metastasiana del celeberrimo nescit vox missa reverti di Oraziana memoria che, sfuggendo dalle originarie intenzioni del poeta latino, profeta della virtù temperante che conduce gli uomini sempre al mezzo della prudenza, diviene ripresa melodrammatica e fonte ispiratrice di libretti d’opera (nel caso di specie l’Ipermenestra) e stile di vita dei divi del canto i quali hanno reso la voce stile di vita, o, meglio, la vita stessa.

Capita così di assistere ad uno spettacolo raffinatissimo ove le due scuole di canto che hanno furoreggiato in epoche diverse finiscano con l’incontrarsi, scrutarsi, guardarsi negli occhi, ora in cagnesco, ora con insofferenza, ora con intolleranza, ora con sufficienza ed infine in atto compassionevole: il mondo dei cantanti cosiddetti castrati con quello che da Rossini in poi vide furoreggiare sulle scene le grandi dive del palcoscenico; un mondo che accomiata l’altro, lo conduce alla porta pretendendo di dargli il benservito senza avvedersi, tuttavia, di possedere in sé tanti valori artistici di cui il primo era stato portavoce.

Tale è il perno dello spettacolo, guidato dalla sapiente mano del regista ed attore Diego Sommaripa, in cui Giuditta Pasta, indiscussa ed acclamatissima cantante interprete dei maggiori ruoli rossiniani, s’incontra con il suo collega e rivale Giovan Battista Velluti, uno degli ultimi, e forse il più longevo, castrati del teatro italiano.

Il dialogo tra loro è da subito duro, aspro, livoroso: tipico di chi sia consapevole che l’una epoca stia cedendo il passo ad un’altra, e nell’inesorabilità del divenire non si acquieti di uscire di scena di buon grado e sportivamente.

Tante volte si è visto questo copione nel gran mondo degli artisti: Rossini lasciò le scene a soli trentasette anni dopo il suo capolavoro ultimo, il Guglielmo Tell perché avvertiva che dopo aver dettato legge in campo musicale per un venticinquennio sarebbe stato costretto ad adeguarsi a gusti musicali lontani dalla propria estetica; finì quindi con il rifugiarsi nei “peccati di vecchiaia”, nella musica sacra e nel delizioso duetto buffo dei due gatti in amore: parodia degli smielamenti romantici che poco avevano a che fare con le fresche, raffinatissime strutture simmetriche musicali permeavano le sue opere.

Il catalogo potrebbe arricchirsi di molto annoverando musicisti del calibro di Spontini giungendo fino a Verdi ed agli anni del silenzio dopo Aida. Ma la disamina porterebbe molto lontano dall’argomento.

Castrati e dive, dunque, si sono quanto meno sfiorati e, nella concezione di Mocciola, anche toccati o presisi per mano: quanto meno hanno provato a comprendersi ed a comprendere la tirannia del teatro che costringe, forza e respinge a seconda del gusto del pubblico, a sua volta influenzato dagli eventi sociali che ne determinano il cambiamento.

Ne è venuto fuori uno spettacolo godibilissimo, in cui la forza del canto si è alternato alla vivacità della recitazione e dove si è scoperta una Gabriella Colecchia attrice di ottima fattura e piena tempra. Una reale Giuditta Pasta, padrona del palcoscenico al punto tale da saper archiviarla stagione dei castrati (di cui il collega Velluti era considerato fino a pochi anni prima una punta d’eccellenza).

Tante volte si sono apprezzate le doti vocali della Colecchia e da subito occorre notare come il suo registro vocale risulti notevolmente irrobustito e reso drammaturgicamente più convincente dall’aver guadagnato, da un canto, note del registro più grave, dall’altro, dall’ausilio della recitazione che ha convinto l’uditorio della sua chiara padronanza del palcoscenico da protagonista la cui fluidità era tale che le è risultato assolutamente naturale transitare dal ruolo di cantante a quella di artista senza che in nessun punto dello spettacolo di avvertisse un minimo segno di cedimento o di soluzione di continuità tra i due ruoli.

Si potrebbe, insomma, e con un pizzico d’ironia, identificarla come una sorta di Adriana Lecouvreur ante litteram che si diverte a recitare il monologo di Fedra al suo antico ed innocuo rivale Velluti, già epigono d’una gloriosa ma trascorsa stagione le cui rughe della vecchiaia sono evidenti nell’espressione artistica siccome – e la spregiudicata Pasta non mancherà di farlo rilevare – sul volto del deuteragonista, peraltro ottimamente interpretato dal vivace e simpaticissimo Antonio D’Avino.

I brani interpretati, che fungevano da intermezzo rispetto le parti recitate sono state tratte da opere di musicisti tra loro contemporanei (Vaccaj, Meyerbeer, Rossini, Bellini e Zingarelli) e comunque spettatori del cambiamento del gusto musicale ed a loro volta interpreti dello stesso pronti a sostituire sulle scene cantanti donne (seppure ricoprenti ruoli en travesti) rispetto l’antico, demodé e sbeffeggiato castrato: in tal senso i due mondi si osservano con diffidenza ed a tratti rabbia, fanno per schiaffeggiarsi ma alla fine si sforzano di comprendersi.

Proprio in tal ultimo senso toccante lo squarcio autobiografico di Velluti che narra di tutte le sue vicissitudini sconosciute al grande pubblico che, pur avendolo portato alla vetta della popolarità ed all’apice del successo, sono il frutto di inenarrabili sacrifici e sofferenze sul piano umano; intollerabili rinunce e studi matti e disperatissimi in conservatorio lo hanno reso una meravigliosa macchina da palcoscenico, ma priva di quella vitalità e slancio che l’incipiente età romantica esigeva dai personaggi d’opera per cui il canto amoroso non poteva più contraddistinguersi da funambolismo vocali circensi, ma doveva acquisire un’autonoma fisionomia drammaturgica nell’ottica di una maggiore cifra realistica.

Alto spessore artistico, dunque, il nostro “Voce dal sen fuggita” i cui protagonisti (Gabriella Colecchia ed Antonio D’Avino, senza dimenticare il bravo Andrea Cancelliere e il tocco magico del pianista Gianni Gambardella, davvero superbo) hanno saputo a perfezione serrare i ranghi di una recitazione piena, commovente, ironica e garbata, esattamente come la base d’oro cinge il diamante che la sormonta, così entrambi gli attori sono riusciti a dare risalto ai momenti del canto le cui arie (da Capuleti, Romeo e Giulietta, Crociato in Egitto e Tancredi) hanno ancor di più acquisito un senso, un filo conduttore consistente nello sfioramento dei due mondi.

Come un Romeo e Giulietta che tendono vicendevolmente ad essi senza mai riuscire a coronare il sogno d’amore, così il mondo di Giovanni Battista Velluti e quello di Giuditta Pasta in fondo dimostrano di considerarsi e, perché no, di amarsi più di quanto non facciano apparire le loro iniziali scaramucce da palcoscenico per concludere, infine, con il leggerissimo tocco delle mani in cui il mondo antico cede il passo a quello moderno rientrando nelle nebbie della storie ma consapevole che quest’ultimo è reso grande proprio a cagione della grande lezione artistica ricevuta dalla prima.

Bellissima intuizione, un vero colpo da maestro, quella di Mocciola nell’aver ideato e realizzato uno spettacolo la cui classicità di personaggi protagonisti musicali del passato di protendano nel futuro impartendo ai moderni una reale lezione di temperanza oraziana.

Pietro Puca

(foto di Luca Petrucci)

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