Il “Tram che si chiama Desiderio” del cileno Plana rimane fermo al capolinea

C’è un monologo, nel terzo atto di “Un Tram che si chiama Desiderio” di Tennessee Williams, in cui Blanche Dubois, la protagonista, racconta, in uno dei suoi rari momenti di verità, a Mitch, l’uomo che stava per sposarla, prima di conoscere la reale storia della donna, del perché è finita nel vortice dell’alcol e della ninfomania: “La morte era di casa da noi… l’opposto è il desiderio”, e da qui una straziante confessione in cui, come non mai, l’autore riesce a mescolare il suo riconoscibilissimo lirismo melò con un realismo crudo, acqua ed olio insieme, in un’emulsione di grande effetto scenico. È questo il momento, contrappuntato dalla litania della venditrice di fiori per i morti (il simbolismo era un’altra caratteristica tipica del grande drammaturgo) in cui vive fino in fondo il significato dello straordinario testo del 1947. Ora, se andate a vedere la rappresentazione di questo dramma in scena in questi giorni al Teatro Mercadante di Napoli, di questo monologo non v’è traccia. È in questa scelta, sinceramente incomprensibile, che trova realizzazione e simbolo la disattenta regia del cileno Cristián Plana. Ma al di là di una scelta drammaturgica a dir poco discutibile, il vero problema dello spettacolo è la volontà di raffreddare i toni di un testo che vive di lacrime e sangue, di dolore e cinismo, qui ridotti in grida e parolacce, con una totale assenza di emozione che azzera la forza empatica coi personaggi. I bravi attori in scena, prima fra tutti Mascia Musy (Blanche) interpretano i personaggi con mestiere, ma senza approfondirne le pieghe, apparendo come se fossero stati lasciati un po’ da soli a risolvere quel lavoro che avrebbero dovuto svolgere con un regista attento, e che avrebbe loro consentito di raggiungere risultati di tutt’altra levatura. Massimiliano Gallo, che abbiamo appena finito di applaudire e lodare come “Liolà”, appare qui in difficoltà alle prese con un personaggio difficile e, forse, distante dalle sue caratteristiche fisiche ed attoriali, ma che una scelta, vera, di un regista, avrebbe saputo sfruttare nel trovare soluzioni convincenti. Dal canto suo Giovanna Di Rauso è una Stella bambinesca e svampita, alla quale non viene però data la possibilità di vivere il grande tormento interiore della donna nella scelta di mandare, per conservare vivo il suo matrimonio, la sorella in manicomio. Antonella Romano riesce, grazie alla sua personale e riconoscibile verve brillante, a dare ad Eunice la giusta colorazione, mentre il resto del cast maschile Antonello Cossia (Mitch), Antonio De Rosa (Steve) e Mario Autore (Pablo e ragazzo dei giornali) sembrano tutti estremamente impegnati a fare il verso ai doppiatori italiani dei film western anni ‘50, fermandosi ad interpretare degli americani di maniera. Insomma la totalità degli attori sembra costretta a dare vita a personaggi che si muovono in uno spettacolo che difetta proprio di vita, dove si raggiungono momenti di inconcepibile disattenzione registica, soprattutto nei cambi di scena fra un quadro ed un altro, con frequenti bui parziali, in cui non riesci a  capire se i passaggi siano o meno volutamente a vista, dove non sai se sono i personaggi o gli attori ad uscire di scena, ad esempio, sgattaiolando nella stanza da bagno per poi rientrare subito dopo dalla porta d’ingresso dell’appartamento. La sensazione , ancora una volta, è che la scelta che si pone ai teatri nazionali di puntare su cast e registi in maniera stabile porti molto spesso a risultati poco apprezzabili dal punto di vista tecnico-artistico, poiché non tutti gli attori possono interpretare tutti i ruoli (soprattutto se non guidati da un’adeguata direzione), e, soprattutto, un regista nello scegliere un testo, un autore, anziché spinto da motivazioni artistiche, è spinto dal titolo che possa attirare il pubblico, limitandosi così a rappresentazioni sterili, dove viene offerto un teatrino di immagini senza anima.

Gianmarco Cesario

Napoli, Teatro Mercadante –  1 dicembre 2016

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