Il sindaco del rione sanità

“Il Sindaco del Rione Sanità” ed il suo mondo quadrato attraverso Martone

Con il “Teatro di Eduardo” si amplifica l’annosa questione sulla riproposizione dei classici. Si amplifica anche perché tutta la drammaturgia dell’autore ha sempre avuto come costante ed ingombrante riferimento l’attore, e spesso si è caduti nell’equivoco di riproporre entrambi in una sorta di imitazione, non solo attoriale, ma anche di allestimento delle sue opere. Poi ci sono quei registi che, per dimostrare la propria intelligenza, credono che stravolgere sia l’unica chiave per interpretare i classici, il che sarebbe anche vero, se a spingerli ci fosse un motivo anche artistico e, soprattutto, un vero talento. Sulla dichiarata strada dello stravolgimento, ma con un profondo rispetto per il drammaturgo, la compagnia del teatro Nest di Napoli, per l’occasione diretta dal regista Mario Martone, qualche mese fa annunciò un nuovo allestimento di una delle opere più ricche ed anche controverse del secondogenito dei De Filippo, “Il Sindaco del rione Sanità”, da molti amata da altrettanti molti invece criticata per un’interpretazione di lettura apologetica dell’antistato di natura camorristica. Da Eduardo stesso, per poi passare al grande Turi Ferro, quindi a Carlo Giuffrè ed al recente, bravissimo Eros Pagni, al di là delle differenti impostazioni registiche, un solo punto in comune legava i diversi allestimenti, la fedeltà alla maturità del personaggio Antonio Barracano, che, agli inizi degli anni ’60, soccombe alla sua idea di “alternativa” alla legalità, educando e governando gli abitanti del suo rione, in nome della pacifica convivenza, con un’etica piuttosto originale, ma vicina alle persone. Soccombe Barracano all’avvento di una società che si fa sempre più arrabbiata e violenta, corrotta dall’incipiente boom economico e dalla trasformazione della camorra, dove qualsiasi regola morale verrà spazzata da interessi sempre più legati alla società borghese, sfociando in un’escalation di becera e spietata violenza. Aveva spiazzato, quindi, la notizia che un gruppo di attori, quasi tutti under 40, interpretasse questo dramma dove il cambio generazionale rappresenta l’idea originale del suo autore, e che il ruolo di Barracano fosse affidato al pur bravo Francesco Di Leva, classe 1978.

Il cast completo dello spettacolo, con il regista Mario Martone

Ed è su questo spiazzamento che l’allestimento di Martone trova quella che non esitiamo a definire magnificenza espressiva di una regia teatrale perfettamente congegnata, con una rilettura che, fedele al macrotesto ed al verbo dell’autore, riesce a rendere la straordinaria aderenza all’attualità che solo i veri registi riescono ad avere attraverso quelli che sono i veri classici. Come in una tragedia greca, o come un’opera elisabettiana, la vicenda viene portata all’oggi, dove un giovane e sfrontato Antonio, forse un pronipote di quello che aveva interpretato Eduardo, decide che il potere, arrivatogli certo in maniera poco legale, può essere utilizzato anche per dire basta alle sparatorie inutili, alle sopraffazioni volgari e rissose, ma non presentandosi come un guru pacifista, bensì utilizzando lo stesso linguaggio dei suoi uomini.

Non è un santo, Antonio, gli piacciono le donne, si sottintende una sua infedeltà alla moglie, utilizza le armi e le mani, è energico e volgare, ma resta l’ idealista descritto da Eduardo, quello che vorrebbe il “mondo meno tondo ed un po’ più quadrato”, e lo dice con la consapevolezza di colui che è nato negli anni di Raffaele Cutolo, che ha vissuto l’escalation di violenza a Scampia e Casal di Principe e che ha come riferimento il sistema denunciato da Saviano in Gomorra, e Francesco Di Leva è straordinariamente bravo nell’interpretarlo senza nessuna concessione al cliché che una certa fiction di maniera ci ha offerto e ci offre, oramai in maniera compulsiva.

Non si può non lodare, con il protagonista, tutta la compagnia, a cominciare dei giovanissimi Martina Di Leva, Ralph P., Mimmo Esposito, Armando Di Giulio e Daniele Baselice, per passare poi allo straniante Giovanni Ludeno, un Fabio la Ragione consapevole di quanto sia utopico l’intento che spinge il sindaco, quindi i sempre bravi  Adriano Pantaleo e Giuseppe Gaudino, che, insieme a Giuseppe Miale DI Mauro, qui regista assistente, con Di Leva sono l’anima del Nest, a cui si aggiunge, in scena, il convincente Gennaro Di Colandrea.

 

La compagine femminile vede impegnate Daniela Ioia, bravissima nel rendere il personaggio di moglie non più sottomessa ed adorante ma giovane donna che mostra in più momenti l’insofferenza alla figura ingombrante di un marito maschio-alfa, la sempre eccellente Viviana Cangiano, la cameriera Immacolata, il cui apporto viene registicamente arricchito inglobando nel personaggio anche il ruolo della portinaia del terzo atto, e la giovanissima e bravissima Lucienne Perreca, una Rituccia che si distacca completamente dall’immagine di giovane fragile e vinta, anzi, presentata come una disinvolta e volgare arrivista, che non esita il tentativo di seduzione di Barracano, alle spalle del giovane ed innamorato Rafiluccio Santaniello, il bravissimo Salvatore Presutto, qui rappresentato come un figlio di papà capriccioso e mal cresciuto, un papà, quell’Arturo Santaniello descritto da Eduardo come un prepotente despota appartenente alla classe nascente (nel 1960) degli arricchiti, che qui invece ha l’aspetto borghese e perbenista di un uomo che ha lavorato e creduto nei valori per tutta la vita e che si trova, suo malgrado, ad uccidere, per un eccesso di legittima difesa, e che giova della stupenda interpretazione di uno straordinariamente bravo Massimiliano Gallo, che rende in maniera impeccabile lo smarrimento di un personaggio che vede crollare tutte le sue certezze di fronte ad un mondo al quale non avrebbe mai pensato di appartenere, di fronte al sentirsi giudicato e condannato, lui lavoratore e capofamiglia esemplare, da un boss che ha conosciuto la galera e che minaccia quotidianamente il mondo che lo circonda. Ed è alla luce di questa importante rilettura che il finale, che Eduardo sanciva con una lettera testamento inventata da Fabio La Ragione nella quale si suggeriva un profetico “scatenate l’inferno”, che invece Martone, in meraviglioso stato di grazisa, lascia, nella bellissima scena dell’”ultima cena” di Barracano, un’apertura verso l’autodenuncia di Santaniello e, magari, con la possibilità di far quadrare il mondo troppo tondo.

Gianmarco Cesario

6 marzo 2017 – Teatro Nest, Napoli

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