Il raglio dell’asino
la bestia, l’assurdo ed il dolore

Nel suo ‘Pagliacci all’uscita’ (Teatro Vascello, Roma, 29.9-8.10.2023) Roberto
Latini dichiara di voler creare un ponte ideale tra due testi apparentemente
distanti – il libretto di Leoncavallo (1892), col suo verismo passionale, e ‘All’uscita’
(1922), di Pirandello, testo che si vuole teosofico e pensante, ma che come
sempre nel siciliano, dal pensiero esplode ad un altrove. Un ponte – precisa Latini
– che crei una terza creatura, per evocazione e compromissione.
Si tratta di vedere dunque quale ircocervo partorisca l’accostamento, e quale sia il
ponte che unisce i due testi. Cosa evocano l’uno all’altro, e in cosa il contatto li
compromette. Le loro nozze sono amore o tradimento ?
Innanzitutto in entrambi i casi va in scena un femminicidio. E poi, più in
profondità, esplode il conflitto tra finzione e realtà, tra ruolo e sentimento, con
relativo collasso tragico. In ‘Pagliacci’, si sa, il tradimento di Nedda, è reduplicato
in scena tra Arlecchino e Colombina, fino a collassare nel delitto per gelosia, con
fusione di scena e realtà, di uomo e pagliaccio. Ridi pagliaccio. La maschera e il
volto, verrebbe da dire pirandellianamente. Un Leoncavallo anticipatore ?
E quante volte poi la realtà in Pirandello irrompe in scena, imponendo il teatro
della vita a stracciare la forma.
Lo vediamo accadere a breve distanza (1921-25) in tre dei testi maggiori. Nei ‘Sei
personaggi’, con la morte in scena del bambino, nel delitto che pietrifica la
finzione nel ‘Enrico IV’, ed infine nel romanzo ‘Serafino Gubbio operatore’, dove
tragedia diventa il dover vedere.
Ridi pagliaccio. Il dover vedere, il voler non vedere, il non poter non vedere.
In ‘All’uscita’ c’è un teatrino di anime post mortem sospese alla nostalgia della
propria identità, con un filosofo che teorizza la relatività delle forme che ci diamo,
ed il bisogno di lasciarle per poter svanire. Non si lascia però convincere un marito
che rimpiange la vita (fiori e luce), e che tuttavia vedrà – all’arrivo dell’anima della
moglie morta – esplodergli in faccia la vita vera, diversa dalle sue sia pur vitali
elucubrazioni. Per lui la moglie non sapeva amare, e morto lui porterà l’amante,
da lei irriso, ad ucciderla. Ed è vero, salvo che il modo smentisce la visione del
mondo tanto del marito che della moglie. Uccisala infatti l’amante si uccide su di
lei, in un bacio di sangue, rivelandole, troppo tardi, la tragedia dell’amore.
Ed il riso di lei – un riso di negazione pure post mortem – diventa stridulo,
demenziale, isterico, epilettico, disperato. Così in nuce nel testo, ma soprattutto
così come vedremo poi, magistralmente, nella regia.
Tuttavia v’è qualcosa di più profondo che unisce tragicamente i due testi, e che è
perfetto per le corde stilistiche di Latini. C’è che ogni cosa nella vita si derealizza in
una farsa tragica – la pietas umoristica pirandelliana, e l’assurdo. La morte diventa
un’eternità dantesca senza riposo, e la nostra volontà di controllo e possesso, di
potenza (che siano le idee del filosofo o il sigillo dei ruoli di marito o amante) si
sdilinquisce in assurdo patetico, farsesco appunto, una farsa che diventa una
danza sul vuoto. In questo Pirandello compromette Leoncavallo, innestandolo su
un vuoto tragico, circense, dove la morte e la crudeltà della natura pietrificano.
E allora. Le maschere dell’arte (Arlecchino, o il diavolo), ed il teatro dei pupi,
diventano l’icona della tragedia, nel bestiale dolore dell’assurdo.
Nella vita non si può giocare, ma la si deve giocare. E che tu voglia o no vedere, il
gioco è mortale, ed il dolore bestiale. Ed il gioco del paese dei balocchi finisce in
un destino asinino da bestie scuoiate. Dico questo perché una delle cifre più
geniali dello spettacolo, un leitmotiv d’accompagnamento accanto ad algide musiche elettro ambient, e ad esse sposandosi in fusioni stralunate, è il continuo
scolorare della parola verso il balbettio e poi il raglio asinino … Un raglio che
oscilla tra la protesta, l’irrisione violenta, ed un mesto lamento da animale
sgozzato.
Del resto, se pure Pinocchio non è dichiarato apertamente, si sa che accompagna
Latini già dal suo ’Ubu Roi’ del 2016, e che è stato cavallo di battaglia straniato del
suo modello vocale, Carmelo Bene, come vedremo anche qui presente.
Voce e derealizzazione.
La cifra dello spettacolo, che a lato dei due testi, recitati con fedeltà letterale, in
sequenza, ne altera la natura.
Intanto cominciamo a dire però, che non è casuale il montaggio.
Il testo di Leoncavallo non viene per primo solo per primato cronologico, ma
perché il seguire del testo pirandelliano lo illividisce e derealizza nel suo sanguigno
tragedismo.
E il non poter ridere, cioè fingere, del pagliaccio, diventa riso derealizzato e
tragico nella moglie pirandelliana, diventa follia ed inabissamento.
Per sempre.
E anche qui.
Se il raglio, pinocchiesco – ma forse anche vitale protesta calibanica – smonta la
ragione a bestialità e dolore (si pensi anche al simbolismo cristologico dell’asino,
che poi nel finale del testo comparirà effettivamente, cavalcato da un bimbo – vita
e pietas); se questo può essere un filo, il ‘per sempre’ come caduta in un vuoto
glaciale, oltre che manifestarsi nell’aspetto visivo dello spettacolo, viene agito
come ripetizione ad eco – ingigantita e microfonata – di alcune parole.
Il dolore si sfarina in phoné, impersonale.
Torniamo però ora indietro, e seguiamo lo svolgersi descrittivamente, dall’inizio.
La scena d’apertura – che poi struttura tutta la prima parte – separa un davanti e
un dietro tramite un siparietto longitudinale, nero, trapunto di stelle, a cui fanno
da controcanto dietro cieli a luna appesa, illuminati ora di blu ora di rosso. Gli
attanti passano avanti o dietro, spesso paralleli ed in controcampo – lenti e
silenziosi – e talora portano dei palloncini, che fluttuano fantasmagorici e circensi,
tra sogno infanzia e Pierrot Lunaire.
Questo però viene interrotto momentaneamente dal chiudersi del sipario, davanti
al quale si scatena il prologo, una superlativa Ilaria Drago. Il tono è il gestuale
arlecchinesco da commedia dell’arte, ma ad esso si mischiano tre distrattori
stilistici, ad animare il farsesco derealizzante. Il parlato infatti slitta nel cantato
lirico, che però dilata comicamente il registro alto (poetico) sbeffeggiandolo in
due modi: ironizzandolo con una gestualità a contrasto, e declinando a tratti in
raglio d’asino. Ilaria Drago manterrà poi questo segno asinino per tutto lo
spettacolo, camminando spesso a quattro zampe e testa capovolta. E non a caso
oltre che il prologo (qui assimilabile al fool scespiriano) le sono affidate come
parti, prima Tonio – l’amante storpio e respinto – e poi il filosofo che,
apparentemente ‘dritto’ per il suo controllo razionale, risulta in realtà storto per la
sua incomprensione dell’amore. Il prologo, Tonio e il filosofo – fuori dal regno
dell’amore – e che in modo diverso ne esorcizzano il tragico.
Quando si riapre il sipario continua la sfilata di personaggi in parallelo, dove al
parlare dell’uno fanno muta testimonianza passaggi dell’altro, a passo lento.
Ma, se si esclude uno stacco lento serio e poetico – quando Sambati recita dolente
i sentimenti del pagliaccio – le parti di tutti i personaggi (Nedda compresa) sono
recitate da una sola voce, maschile, a lettura veloce. Come se fosse un tra
parentesi.

Poi, quando inizia la commedia, il teatro nel teatro, Latini si scatena nell’ombra,
con movimenti felini, impugnando l’asta del microfono, in un recitato alla Carmelo
Bene – imponente, metafisico, energetico nella dilatazione microfonata – che in
alcune impuntature ad anafora (guarda amor mio, guarda amor mio) ricorda la
lettura che Bene fece del sesto del purgatorio. Impuntature accentuative che
insieme alle ripetizioni ad eco ( sarò tua sarò tua sarò tua ) innalzano la
temperatura tragica in una sfera impersonale, mitologica.
Il tutto a preparare, ad effetto, il ritorno di Nedda alla voce femminile, come
ritorno alla realtà e verso il culmine tragico, quando lei rifiuta a Canio la
rivelazione del nome dell’amante.
A questo punto è un concertato crescente di botta e risposta fatto di ripetizioni
dei contrapposti, fino a che la violenza del femminicidio è siglata dal forte rumore
fuori scena di un bicchiere in frantumi.
Il vetro e l’acqua. La vita in frantumi.
Anticipa il cambio di scena, dove la morte si fa gelido acquario, stralunata
derealizzazione. In una cornice geometrica wilsoniana – ma con la crudeltà glaciale
e mortuaria delle installazioni di Damien Hirst – ci si squaderna il mondo
pirandelliano del post mortem. I due dialoganti (marito e filosofo) discutono
sdraiati, immersi in una zona d’acqua bassa, con continuo sciaguattio, come a
ridurre il loro discorso all’assurdo di uno scomposto agitarsi di rane in agonia.
Dietro però campeggiano tre vasche-acquario, appoggiate a muretti su cui
siedono altri morti-testimoni, talora con le gambe a mollo. Come il padre di
Cavalcanti delle urne infuocate del decimo dell’inferno, a turno poi sorgono a
voce, rompendo la cornice del dialogo inferiore con il loro assurdo, per cadere
infine a galleggiare nelle vasche (metafora di disperato silenzio e gelo della
morte), il cui liquido le luci trasfigurano dal blu lunare al rosso sangue.
E’ in questo clima che la moglie del marito, una splendida Elena Bucci – al centro
tra due figure maschili – tesse la sua tela di disperazione e sangue, il cui leitmotiv
è un ciclico convulso esplodere di riso isterico.
Un riso che inizialmente può sembrare solo la constatazione dell’assurdo di
ritrovarsi col marito. La morte come cena delle beffe.
Cresce tuttavia il riso presto alla dimensione di tragica disperazione per l’amore
sprecato e incompreso del suo amante. Per il bacio di sangue della morte.
E’ un non voler vedere e doverlo fare – a strappi. Ma soprattutto un disperato non
voler cedere ad una morte come certificazione senza ritorno di tale fallimento.
Non c’è spazio per quella pacificazione prospettata in stile indiano dal filosofo, la
pacificazione del lasciar andare come illusione il proprio ruolo. No. Quello
pirandelliano è l’inferno senza uscita di color che son sospesi all’irreversibilità
dell’errore.
E quindi – come nella tela strappata del cielo del ‘Fu Mattia Pascal’ la narrazione
(qui come nella prima parte) procede oscillatoria, a onde e strappi, tra illusione e
realtà. Ragli là, convulsioni qua. Ma sempre strappi, lacerazioni. Mentre sempre
più inesorabilmente si affoga.
E la Bucci è in ciò è magistrale. Magistrale nell’alternare concitato vitale e
convulsioni. Lo è vocalmente, ma anche – complice la regia – fisicamente. Così, se
inizialmente si staglia verticale sugli altri, poi, lentamente, come il Titanic, si
inabissa nella vasca. E la vasca pulsa, blu e rossa, a seconda che lei giaccia o tenti
disperata di riemergere dal nulla, mani e viso annaspanti oltre la superficie, in una
convulsa agonia.
Infin che il mar fu sovra lei richiuso, verrebbe di dire. Uno spettacolo dantesco di
disperata pulsazione e dissolvenze, nel perfetto stile tragico decostruttivo di
Roberto Latini.

Non gentile, ma necessario

Marco Buzzi Maresca

 

Scheda tecnica
‘Pagliacci all’uscita’
da Leoncavallo a Pirandello
di e con Roberto Latini
e con Elena Bucci, Ilaria Drago, Savino Paparella, Marcello Sambati
musiche e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
regia Roberto Latini
Teatro Vascello, Roma, 29.9-8.10.2023

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