“Il giardino dei ciliegi” sull’orlo del baratro

Impegnativa prova di Luca De Fusco sul capolavoro del grande autore russo, eseguita senza lasciare particolari concessioni alla leggerezza.

giardinoNon esiste, probabilmente, autore più difficile da rappresentare di Anton Cechov. Il motivo risiede, a nostro avviso, nella estrema semplicità dei suoi testi, fatti di monologhi travestiti di dialoghi, in cui l’azione scenica è praticamente nulla, e la cui profondità è ben nascosta dalla quotidiana banalità dell’essere umano, dai suoi dolori, dai suoi ironici non sense, dai suoi pensieri in libertà, conditi da una placida immobilità, tipica di una provincia sonnolenta e pigra, che nella Russia pre-rivoluzionaria risentiva delle insoddisfazioni verso un mondo che aveva bisogno di cambiare ma che non riusciva a non aggrapparsi ad un passato-presente che appariva meno oscuro di ciò che di lì a poco sarebbe avvenuto.

Da questo riflessione, probabilmente, il regista Luca De Fusco è partito per raccontare l’ultimo dei grandi capolavori di Cechov, “Il Giardino dei Ciliegi”, forse il più affine a quanto sopra descritto, un lungo epilogo di una tenuta che, in nome di un progresso che spinge verso il proprio realizzarsi,  lo fa attraverso i colpi di scure che tagliano gli alberi, che la stessa protagonista vede come esseri umani, per far posto alle costruzioni che il palazzinaro Lopachin intende realizzare. Purtroppo la rivoluzione decreterà, invece la morte anche di questo barlume di nuovo mondo, seppure volgare e cinico, ed uno ad uno, i personaggi, così come De Fusco ha disegnato il finale, precipitano in un baratro che li inghiottirà, ed il vecchio Firs, che l’autore vuole come ulteriore esempio del vecchio mondo che finisce dimenticato, disperato, in quest’allestimento, si aggrappa alla malridotta scalinata, forse a testimoniare ciò che è stato.

giardino2È un allestimento difficile questo realizzato da De Fusco, che porta sicuramente la firma di un regista critico verso una certo tipo di ideologia, ma anche la consapevolezza storica che il cosiddetto “sogno sovietico” è stato tutt’altro che il paradiso idealizzato nel XX secolo. Ma la difficoltà della versione del regista risiede anche nel non cedere alla pur forte dose di ironia dell’autore, alle sua voglia, malgrado ciò che scrive, di leggerezza, suo grande tormento sin dai tempi di Stanislavskij. È pur vero che difficilmente, come in realtà Cechov si ostinava a sostenere nell’epistolario con la moglie, si riesce a trovare nel “Giardino dei Ciliegi”, quel vaudeville che lui riteneva di aver scritto,  ma la plumbea consapevolezza di fine inserita in quest’allestimento ci appare palese sin dalla prima scena, in cui Lopachin, Duniasa e  Epichodov si muovono come dei morti viventi, pallidi, emaciati, stesi per terra, con evidenti difficoltà a muoversi, se non per spasmatici movimenti da rigor mortis, mentre alle loro spalle la famiglia di Ljuba ed i servitori in arrivo con il treno, sulla scalinata danno le loro battute in assoluta immobilità.  giardino3La recitazione degli attori, a metà tra il realismo ed il simbolismo, è sicuramente efficace nell’ottica del progetto registico, con un’originale, ma non sempre sostenuta fin in fondo da renderla pienamente palese, scelta di dare loro un accento napoletano, in una sorta di parallelismo tra l’indolenza partenopea e la malinconica rilassatezza russa. In scena Gaia Aprea è una Ljuba sensuale, infantile, che seduce tutti gli uomini che le sono intorno, dai servitori al fratello, senza particolari coinvolgimenti personali, ma con il dolore di una donna che sa di essere verso la fine, mentre il Lopachin di Claudio Di Palma è forse meno greve di quello che ci si immagini, ma sicuramente di forte presenza scenica. Degne di nota le interpretazioni di Giacinto Palmarin (Trofimov) e del bravo Paolo Serra (Gaev), mentre Federica Sandrini è una Varja un po’ acerba e poco differenziata dalla fresca Anja di Alessandra Pacifico Griffini. A Sabrina Scuccimarra (Sarlotta), Alfonso Postiglione ((Piscik) e Gabriele Saurio (Epichodov) il compito, assolto diligentemente, dei tre ruoli che dovrebbero dare la piega comica allo spettacolo. Concludono il cast nei ruoli dei tre servitori Enzo Turrin (Firs), Serena Marziale (Duniasa) ed il sempre ottimo Paolo Cresta (Jasa).

giardino1Come sempre negli spettacoli di De Fusco appaiono di grande rilevanza gli apporti di Scene, Costumi e Musiche, le prime glaciali e metafisiche di Maurizio Balò, i secondi ben amalgamati in una quasi monocromia sabbiosa del più volte candidato all’ Oscar Maurizio Millenotti. In quanto alle musiche, non si può non dare degna nota al lavoro straordinario del bravissimo Ran Bagno, il compositore israeliano che ha composto una vera e propria partitura di accompagnamento, la quale, nei momenti di danza della festa, si avvale dell’apporto coreografico di Noa Wertheim.

Gianmarco Cesario

IL GIARDINO DEI CILIEGI  di Anton Čechov

regia di Luca De Fusco

con Gaia Aprea, Paolo Serra, Claudio Di Palma, Alfonso Postiglione, Sabrina Scuccimarra

coproduzione Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, Teatro Stabile di Napoli, Teatro Stabile di Verona

residenza artistica a Napoli

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