Festa al celeste e nubile santuario di Enzo Moscato e la poesia si accende perfino tra le miserie dei “senza scampo”.

Nessun focolaio domestico diventa santuario senza l’intervento di una fede pagana e disonesta. E così, in Festa al celeste e nubile santuario di Enzo Moscato, assistiamo alla rappresentazione, ora drammatica e ora dissacrante, ora tragica e ora caustica, di una beffa tagliente che ribalta e neutralizza credenze e apparenze, svelando miserie e ingenuità di un’umanità prosaica e sofferente.

Elisabetta, Annina e Maria, protagoniste della pièce, sono tre sorelle che convivono nello stesso “vascio” e cercano di sopravvivere alla loro quotidiana e prostrante marginalità inseguendo, grazie all’ausilio di strategie comportamentali molto diverse tra loro, la chimera di un riscatto, sociale e personale.

Elisabetta, interpretata da una volitiva ed energica Lalla Esposito, prova a riscattare la propria condizione di esclusa in maniera naïf e virginale, affidandosi con sincerità e trasporto al culto e alla liturgia popolare, Annina, invece, interpretata da un’esplosiva e temperamentosa Cristina Donadio, cerca di sottrarsi al proprio destino di vinta aggrappandosi, con la disperata ferocia dei senza scampo, alle menzogne e all’ipocrisia, infine Maria, sorella “muta” e apparentemente menomata, interpretata da una risoluta e irriducibile Anita Mosca, prova ad emanciparsi da ingiurie e mortificazioni ricorrendo all’inganno e alla simulazione.

Uno spaccato esistenziale complessivamente farisaico e conformista in cui il sentimento del sacro smarrisce l’auspicato potenziale mistico-redentivo per diventare, al contrario, codice espressivo funzionale a dar voce a qualsiasi impostura e a qualsiasi doppiezza. Un codice che rivela, nella meschinità di un contesto sociale culturalmente ed emotivamente deprivato, tutta la sua latenza belluina ed efferata.

In Festa al celeste e nubile santuario, lavoro di eccezionale qualità drammaturgica, scritto e diretto da Enzo Moscato, il sentimento della poesia sopravvive, nonostante tutto, nello spazio di solitudine e miseria in cui si consuma il dramma, anzi è proprio grazie a questa poesia che lo spettatore avverte un improvviso palpito d’umanità e d’amore perfino nell’epilogo tragico e inatteso, perfino nell’abbraccio fatale di Toritore (un perfetto Giuseppe Affinito), angelo della morte suo malgrado, sospeso in volo tra incoscienza, innocenza, desiderio e inganno.

 

 

Replica del 13/02/2020, Sala Assoli di Napoli

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