Ultimo reportage di Claudio Facchinelli dal Festival Primavera dei Teatri appena conclusosi.
Castrovillari, 3 giugno 2014 – Si è concluso ieri sera il festival Primavera dei teatri. L’inizio degli spettacoli, anticipato alle 17, ha consentito un dopo teatro ancora più lungo: prima, l’ormai tradizionale cena alla Torre infame dove, attorno a lunghe tavolate, davanti a fumanti piatti di “Fuoco di bacco” o di pasta “Alla ’mbriacona”, si distilla il gossip di tutto il teatro italiano; poi, fino alle ore piccole, un rilassante, disimpegnato ozio nelle segrete del Castello Aragonese, trasformate in discoteca.
Non è compito di queste brevi cronache trarre delle conclusioni, ma va detto che ancora una volta Scena verticale, con un’attenzione mirata ma non esclusiva al Sud d’Italia, è riuscita ad allestire una vetrina rappresentativa e illuminante dell’odierna offerta teatrale.
Ma cominciamo dal penultimo giorno.
In Hamlet trevestie, di Punta Corsara/369 gradi confluisce l’originaria, vitale virulenza dei ragazzi di Scampia – ricordiamo quel fiume in piena che era Arrevuoto – ad una professionalità ormai da attori fatti, come avevano già dimostrato alla grande in diverse occasioni (penso alla farsa Il signor di Poircegnasc). Il testo è una parodia settecentesca dell’Amleto shakespeariano, di John Poole, contaminata col napoletanissimo Don Faust di Antonio Petito, nella riscrittura di Emanuele Valenti e Gianni Vastarella, ambedue anche in scena. La regia di Valenti (mi fa tenerezza riconoscere in lui il ragazzino di A cinque centimetri da terra, anno 1998), l’energia degli attori e, non ultimo, l’irresistibile, ipnotico gioco d’occhi di Giuseppina Cervizzi, conferiscono allo spettacolo un ritmo e un fascino accattivante, fino all’amaro, inatteso finale, che ci fa capire che, senza parere, sotto sotto si sta parlando di camorra.
Mentre Saverio La Ruina sembra essersi ormai incamminato, con successo, lungo una sua personale esplorazione della meridionalità – o dell’italianità – Dario De Luca, con Va’ pensiero, che io ti copro le spalle prosegue sulla strada intrapresa con Morir sì giovane e in andropausa: una forma di teatro musicale, di italico cabaret, sulle orme di Giorgio Gaber e Sandro Luporini. Dario, in scena, col corpulento Paolo Chiaia, ha scritto questo secondo episodio di una “Trilogia del fallimento” (verdiana nell’ispirazione dei titoli: il terzo sarà Parmi veder le lacrime, ma è solo un coccodrillo), assemblando drammaturgicamente le canzoni di Giuseppe Vincenzi. Chiaia, alle tastiere, è anche efficace spalla, fin dal gustoso incipit costruito con un gioco di ombre e di controluce (una trasparente citazione di Stanlio e Ollio). Rispetto al Morir sì giovane, lo spettacolo ha forse una dimensione più intima ma ugualmente godibile. Dario porge le sue canzoni, non da cantante, ma con l’autorevolezza dell’attore, e il suo messaggio agrodolce – una sorta di ironico manifesto dello sfigato – arriva con immediatezza in platea.
L’ultimo giorno, ancora tre spettacoli, fra loro molto diversi.
L’obiettivo di Scarpestrette, della neonata compagnia Anomalia Teatro, come spiega Rita De Donato, autrice, regista ed interprete, durante la conferenza stampa che si tiene ogni mattina nei chiostri del Protoconvento, è il recupero della memoria storica. “I ragazzi di oggi non sanno quasi nulla della coercizione, delle regole di vita imposte dal fascismo”. Lei non ha ancora trent’anni ma ha fatto suoi i racconti della nonna, oggi ultranovantenne. Il lavoro si muove su un duplice binario, ora realistico, ora surreale, ma la struttura drammaturgica presenta ingenuità e sfilacciature. Rivela però uno sbalorditivo giovane attore: Davide Fasano – diciotto anni appena compiuti – che disegna con impressionante verità tutto il personaggio di un giovane mentalmente confuso ma, con un semplice scarto della voce e dello sguardo, riesce a passare in un attimo ad altro ruolo. Dopo lo spettacolo incontro Rita, che appare consapevole dei limiti del suo lavoro: “Ho dovuto svolgere troppe funzioni, e ho scelto di concentrarmi sul personaggio di Davide, trascurando il resto”. Ma l’intenzione resta generosa, e lei avrà tempo e modo di maturare artisticamente.
Piccoli omicidi in ottava rima, vol. 1 e vol. 2, dei Sacchi di sabbia, si proponeva come prima nazionale, ma è risultata, di fatto, l’anteprima di un progetto in corso d’opera. Già con Sandokan o la fine dell’avventura, la compagnia ci aveva abituato a modalità espressive spiazzanti, facendo collidere il linguaggio eroico di Salgari con il casalingo, caotico disordine di un tavolo da cucina, fra taglieri, pentole, mezzelune, verdure affettate. Qui il contrasto è ancora più ardito e stridente: da un lato, l’antica tradizione toscana del “Cantar maggio”; dall’altro, topoi narrativi totalmente anacronistici, come Pat Garrett e Billy the Kid, Wolf (cioè Cappuccetto Rosso), L’invasione degli ultracorpi. Ma lo spiazzamento non si ferma qui: permea l’intera, stralunata struttura espositiva di ogni singolo quadro. Le armi dei due pistoleros sono rozze sagome di legno; gli spari e ogni altro rumore sono prodotti oralmente da una compita figura seduta di fronte ad un microfono, che doppia anche la voce roca del lupo; il sangue delle ferite vien pennellato, volta per volta, da una delle vocaliste mentre, alla maniera del Combattimento di Tancredi e Clorinda, canta in ottava rima il duello mortale. Il risultato è di irresistibile ilarità. Ho detto che il lavoro è in corso d’opera, non perché incompiuto, ma in quanto esistono diversi altri capitoli, costruiti nello stesso modo, che potranno aggiungersi a quanto mostrato. Un titolo per tutti: Il pianeta delle scimmie erotomani.
Poche parole infine per Thanks for vaselina, di Carrozzeria Orfeo, regia di gruppo (Gabriele Di Luca, Massimilano Setti, Alessandro Tedeschi) su drammaturgia dello stesso Di Luca. Già reduce di meritati successi, è un lavoro brillante, con attori bravissimi, affiatati, sui quali spicca la irresistibile presenza scenica di Beatrice Schiros. Si ride di gusto, ma rimane in fondo alla gola un retrogusto amaro per quel ritratto, più realistico di quanto vorremo ammettere, di una generazione allo sbando, alla ricerca spasmodica, quanto patetica e velleitaria, di un’etica perduta.