“Adelchi”, con Trifirò il classico incontra la contemporaneità

Una discreta, sommessa tessitura sonora si intreccia col vigoroso garrito delle rondini, che si incrociano nella porzione di cielo inquadrata dal chiostro di Santa Maria alla Fontana; si posano, scomparendo per una manciata di secondi sopra i portici bramanteschi, dove si indovina un nido, per riprendere nuovamente il volo. Poi, come d’incanto, quasi obbedissero a una precisa regia, appena l’azzurro si fa scuro, scompaiono. Anche un piccione solitario, rimasto appollaiato sul davanzale di una finestra, vola via. Le luci di scena si fanno più intense e, uscendo da dietro una tenda, entra Roberto Trifirò: calzoni neri, una camicia bianca dal taglio arcaico. Sale su un praticabile dall’aspetto precario, tenuto insieme da morsetti a vista; sistema attorno a un tavolo malandato le tre sedie rovesciate e, reggendo in mano un quadernetto, inizia la lettura dell’Adelchi.

Nella memoria storica della tragedia manzoniana c’è la messa in scena di Gassman che, nel ’61, da regista e protagonista ne aveva fatto uno dei suoi cavalli di battaglia; negli anni Settanta, l’edizione diretta da Orazio Costa, protagonista Gabriele Lavia, con uno strepitoso diacono Martino di Roberto Herlitzka; e ancora i fascinosi funambolismi vocali di Carmelo Bene, sostenuti da uno scenografico sistema di percussioni.

Trifirò non sembra essersi lasciato intimidire da questi ingombranti retaggi e, scommettendo sulla rilevanza teatrale della nuda parola manzoniana, l’affronta in prima persona, con un coraggio ai limiti del temerario.

Modulando diversi registri sonori ed espressivi, restituisce con naturalezza ed efficacia la molteplicità dei personaggi, sia maschili, sia femminili; ora sul piccolo palco, ora scendendo sul selciato, per un rapporto più diretto col pubblico.

Pochi i supporti scenotecnici: un alternarsi di luci più calde e diffuse con un verde livido, quasi inquietante. Originale l’uso delle musiche che accompagnano la lettura, tratte dall’opera di György Ligeti. Prima gli aerei frammenti da Ramifications. Più oltre le cupe, gravi note del pianoforte, più che accompagnare la lettura, sembrano penetrarla, e lo stesso interprete mediatore del testo manzoniano si ferma ad ascoltarle. Ugualmente, dopo la morte di Ermengarda, la parola tace, e in un silenzio sospeso risuona la melodia struggente di Lascia ch’io pianga, di Händel: un’emozione che sembra investire per primo l’attore, il quale, ritto, in silenzio, la condivide col pubblico.

Una operazione teatrale che ha una sua ragione di essere. Oltre ad alcuni momenti di forte efficacia spettacolare (il monologo del diacono Martino, i due cori), è proprio la sua sobrietà drammaturgica a indurci a riconsiderare un autore che i programmi scolastici ci hanno reso indigesto, e non ci hanno aiutato a comprendere appieno. Ci hanno insegnato che il Manzoni è il teorico della “provvida sventura”, ma quello sguardo sul “volgo disperso che nome non ha” ha una sua fascinosa originalità, all’interno di una tradizione letteraria (e, fino a pochi decenni fa, anche storiografica) che in generale si è principalmente occupata dei grandi protagonisti, più raramente del popolo minuto. Nel ’25, pochi anni dopo la stesura dell’Adelchi, all’estremo opposto dell’Europa, Aleksandr Sergeevič Puškin scriveva il Boris Godunov, assumendo il popolo come protagonista.

È improbabile che, all’epoca, i due scrittori avessero notizia l’uno dell’altro, ma si tratta di una concomitanza non casuale che, in ambedue, anticipa profeticamente problematiche dolorosamente attuali.

Un’attualità cui sembra alludere anche l’immagine, felicemente incongrua, della locandina: un contorto, inquietante volto ritratto da Francis Bacon.

Claudio Facchinelli

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