“Pochos”, Benedetto Sicca a gamba tesa
Nell’ipocrisia del calcio italiano

 

Se un giovane napoletano decidesse di scrivere in una chat per organizzare una semplice partita di calcetto con degli sconosciuti, tutto potrebbe pensare tranne di finire in pasto alla morbosa attenzione dei media.

Questo però è davvero accaduto sette anni fa, per il semplice motivo che il ragazzo è omosessuale, e così i suoi entusiasti compagni di calcetto. Il nome della squadra (“pochos”, scugnizzi in spagnolo) omaggia l’allora stella del Napoli di Benitez, Lavezzi, e la febbre mediatica costringe alcuni dei calciatori ad un “outing” magari non voluto.

Materiale troppo ghiotto per non finire, prima o poi, al cinema, o a teatro. Come accade in “Pochos”, griffato da Benedetto Sicca, e in scena al Teatro Area Nord in una afosa giornata di fine luglio, una delle tante tappe in Italia.

Sicca allestisce il suo spogliatoio denudando i pensieri degli interpreti e utilizzando tutti gli archetipi classici del fancazzismo eterosessuale da “camerata”, salvo poi virare improvvisamente verso squarci intimi – ora leggeri, più spesso lancinanti – in cui i drammi familiari si rovesciano impudichi, come le briciole dalla tovaglia.

Famiglie ostili, famiglie indifferenti, famiglie amichevoli, famiglie qualunque. Fuori, però, la società inveisce con la bava alla bocca, nascondendo nei cassetti peccatoni e peccatucci, nell’uniforme (e consolatorio) grido del “dagli al frocio”.

Rompendo spesso e volentieri la quarta parete, coinvolgendo il pubblico (peraltro già di suo assai attento) Sicca diverte e sgomenta, utilizzando al meglio la scena, e dando ad ogni interprete un giusto rilievo. Variegatissimo il cast, eppure miracolosamente assai coeso.

Se Emanuele D’Errico si conferma attore di stravagante talento e di intensissimo impatto emozionale, piacciono anche la disinvolta e solida interpretazione dell’ottimo Riccardo Ciccarelli, la ieratica ed elegante figura di Dario Rea, la scintillante presenza, per gesti e voci, di Francesco Roccasecca e l’equilibrio prezioso fornito dal misurato Francesco Aricò.

Se “Pochos” ha rotto gli schemi, parlando di calcio e omosessualità con apparente semplicità, vuol dire che è uno spettacolo necessario. Al di là del suo indiscusso valore – diremmo – etico, e insieme artistico, Sicca può dire di aver lasciato un segno, in un territorio scivoloso, togliendo le mutande all’ipocrisia di un mondo che mai accetterebbe un coming out (Fashanu, nella tollerante Inghilterra, ci ha lasciato le penne) e che ancora s’industria ad ingaggiare fidanzate “pret è porter” per coprire i gusti proibiti delle proprie star, ricoperte di euro e di sponsor pronti a dichiararsi, ma solo in sede commerciale, “gay-friendly”.

Applausi e consensi, ma fuori dall’ovatta del teatro (isola felice per definizione) sfrecciano motorini pronti alla prossima aggressione omofoba, nel silenzio-assenso dei legislatori e tra le sabbie mobili del Vaticano.

E i bollettini di sangue, sciorinati senza sorriso dagli attori di Sicca, si aggiornano ora per ora, giorno dopo giorno. Vaglielo a dire a Pillon.

Antonio Mocciola

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