“Pia de’ Tolomei” al Teatro Goldoni di Livorno
il Donizetti più raffinato e maturo

 

 

Dopo 156 anni il Teatro Goldoni di Livorno rivede sulle sue scene la Pia de’ Tolomei di Donizetti.

Scelta quanto mai felice, dunque, quella di far circolare questo spettacolo nella cordata di teatri che tra ottobre e marzo la vedranno rappresentata, oltre che a Livorno, anche a Lucca (ove mai era stata messa in scena).

La Pia appartiene al periodo cosiddetto “maturo” di Donizetti, quanto oramai aveva raggiunto una conoscenza ed una raffinatezza musicale che gli veniva riconosciuta in tutta Europa; era il compositore della Lucia (data a Napoli un anno prima), e probabilmente con questo lavoro egli avrebbe voluto riprodurre la medesima drammaturgia dell’eroina inglese ancorché con rovesciamento dell’azione e della caratterizzazione dei personaggi. In Lucia il fratello Enrico, desideroso di riacquistare il prestigio politico perduto forza Lucia a nozze nefaste con Arturo, avendo ella promesso la sua mano ad Edgardo; nella Pia il marito geloso Nello (baritono) sospetta dell’infedeltà della moglie, sospinto dalla calunnia del fratello Ghino (tenore) follemente innamorato, ma respinto, della donna la quale cerca di salvare il fratello (sospettato a torto di essere l’amante segreto di Pia) dall’incalzare della battaglia che oppone il marito ghibellino al fratello guelfo.

Classica trama romantica particolarmente cara al Bergamasco che richiedeva ai suoi librettisti “amore, ma che sia amor violento” ove la tragedia sin dall’alzata di sipario alligna sui personaggi travolgendoli nell’inesorabile piano inclinato che li porta inevitabilmente alla catastrofe senza che nulla possa arrestare l’inesorabilità del già scritto, del già deciso.

Lo spettacolo, guidato dalla regia di Andrea Cigni, era, tuttavia, ambientato non all’epoca dantesca di Guelfi e Ghibellini, quando infuriavano le lotte tra bianchi e neri ben eternate nei versi del X canto dell’Inferno da Farinata degli Uberti, bensì in epoca fascista, intorno agli anni ’30 rappresentando il contrasto tra fascisti (cui fanno parte Nello, con la divisa di gerarca, ed il fratello Ghino) e partigiani, nelle cui schiere appartiene Rodrigo de’ Tolomei. Oramai si è abituati a “rivisitazioni” dell’azione o dell’ambientazione delle opere, tuttavia in questo caso si può affermare che le scelte del regista sono del tutto accettabili sia perché non intaccano l’aderenza dell’azione alla musica – ed anzi cercano di conferire maggiore coerenza alla stessa – sia perché l’azione era incastonata in un impianto scenico “astratto” formato da forme geometriche regolari, quali cubi, quadrati, rettangoli: idea di un dramma destinato a ripetersi nel tempo, frutto dell’inesorabilità del destino e della follia degli uomini che non lascia scampo.

Il regista ha particolarmente sottolineato la virtù eroica di Pia che mai è disposta a cedere ad un amore infedele, lei donna custode ed amante dell’arte (sulla scena erano posizionate tele di pittori toscani importanti che la protagonista curava e ammirava con le sue amiche) ma segnata da un destino che pur conducendola alla morte innocente segna il preludio di un’epoca di pace e concordia ordinum: ella muore tra le braccia di due uomini legati da un sentimento di odio reciproco, il fratello ed il marito, ed entrambi, guardandosi negli occhi e sostenendo il corpo di Pia morta avvelenata a cagione di un miope malinteso, sono indotti a comprendere la fallacia e la stoltezza di tali lotte fratricide che generano solo delitti.

Plauso al regista, dunque, per aver compreso questo aspetto dell’opera onde lo spostamento dell’azione in tempi moderni non può che rivitalizzarne l’ideale che sarebbe rimasto in secondo piano se l’azione fosse restata ai tempi di guelfi.

Sotto il profilo squisitamente musicale, l’orchestra della Toscana, ben diretta da Christopher Franklin, ha esposto un bel suono, bei ritmi e convincenti cambi di tempi. Le frasi erano generosamente esposte, le cabalette ben ritmate; molto buono il rapporto buca-palcoscenico.

Il coro anche ha eseguito la non piccola e facile parte con perizia; si è avuta la sensazione nel secondo atto, durante il coro dell’accampamento degli armigeri, che vi fosse una leggera sfasatura che ha costretto il Direttore d’Orchestra a rallentare leggermente il tempo.

Vero punto di forza della serata sono state indubbiamente le voci.

Divina la protagonista Francesca Tiburzi con una voce lirica brunita e bronzea, ha conferito al personaggio il giusto carattere crepuscolare e timido; la Pia interpretata da questa Cantante è un’eroina sconfitta dagli eventi ma non vinta, giammai disposta a piegarsi alla convenzione od al compromesso, sceglie la morte piuttosto che cedere al folle amore del cognato di lei infatuato ed accetta l’onta calunniosa di essere considerata infedele piuttosto che rivelare la presenza del fratello, politicamente in pericolo.

La Tiburzi ha saputo mediare tra il ruolo belcantista e quello lirico in un perfetto equilibrio ove la psicologia della protagonista è stata disegnata da Donizetti come una divina idealista fortemente piantata con i piedi a terra.

Grande successo ha altresì riscosso Marina Comparato nella parte di Rodrigo, ruolo che Donizetti non aveva previsto ma che le maestranze de La Fenice all’epoca gli imposero; la parte è estremamente impervia ed affrontata con grinta dalla Comparato la cui voce ha letteralmente riempito il teatro con le sue agilità non scevre da acuti possenti che le hanno tributato consenso a scena aperta.

Ottime anche le parti maschili tra cui si annovera Valdis Jansons (baritono) nella parte di Nello, marito di Pia, la cui nobiltà di accento e la purezza del fraseggio ha messo in luce la profonda “umanità” del personaggio a dispetto della divisa da gerarca fascista da lui indossata: lungi dal presentarsi come un despotino ottuso egli è un uomo profondamente innamorato della moglie, nonostante tutto, capace di ricredersi e di guardare con umanità negli occhi all’avversario quando la tragedia ha avuto il suo compimento. Giulio Pelligra, nei panni di Ghino, è classica voce tenorile del repertorio rossiniano donizettiano che vorremmo sentire più spesso nei teatri; corretto nel fraseggio e sicuro negli acuti è dotato di una voce cristallina omogenea in tutta la sua linea d’estensione. Perfetto nella parte dell’amante respinto mosso da sentimenti irrazionali di rivalsa.

Molto buona la prova delle altre parti vocali cui erano affidati ruoli di minore importanza.

Aspettative non deluse, dunque, quelle del Teatro Goldoni che ha inteso riportare in vita la storia di una delle figure toscane più poetiche e misteriose della storia, immortalate nella celebre terzina che chiude il quinto canto del Purgatorio.

Unico rammarico: il teatro non pienissimo di pubblico che non ha evidentemente saputo cogliere appieno l’importanza di un evento musicale di tale portata; ma che si spera non distolga la Direzione Artistica dal proseguire in iniziative culturalmente tanto appetibili da richiamare appassionati e melomani da tutta Italia per potervi assistere.

 

Pietro Puca

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