“PadrEterno”, il viaggio interrotto
verso l’emancipazione

Al Centro Culturale Artemia di Roma Antonio Mocciola, vincitore del premio “InCorti in Artemia” 2020, porta in scena, come di diritto, l’opera lunga “PadrEterno”, affidando la regia a Tommaso Arnaldi.

Ed è un meraviglioso esempio di teatro psicologico quello che va in scena, prendendo le mosse dalla lancinante “Lettera al padre” di Franz Kafka, ma in realtà indagando con l’esatta ferocia di una lama tutti gli archetipi dei rapporti di potere che, dalla famiglia in poi, condizionano gli umani destini.

Ecco così un Franz Kafka che diventa cane addestrato, figlio devoto, emancipato (ma mai del tutto), infine stroncato da una inevitabile malattia, forse dell’anima. Su di lui si staglia il padre Hermann, totem d’argilla, ma sufficiente a colpire, e affondare, l’anima fragile del poeta.

La drammaturgia si allea con la regia disegnando un piccolo carillon dark di atroce bellezza, e gli interpreti muovono la scena con improvvisi scarti fisici, pur raggelando le parole nelle gabbie delle vere parole delle missive – mai spedite – di Franz. Antonio Mocciola mescola così i suoi concetti originali con quelli dello scrittore praghese, con un’operazione interessantissima in cui il moderno sembra antico, e viceversa, fino a confondersi, e fondersi. Come non pensare a certe famiglie in cui, per esempio, il coming-out resta un momento da ritardare all’infinito? E parliamo del 2022.

Ancora splende la straordinaria modernità dell’arte di Kafka, che un attore su cui puntare assolutamente come Andrea Casanova Moroni sa rendere in modo perfetto (indimenticabile il suo “Ti odio”, sganciato al padre – ma senza essere visto – come una bomba casuale), supportato da un Francesco Giannotti da brividi nei suoi improvvisi scatti di violenza (gli schiocchi di frusta come punizione promessa, ma mai mantenuta). Sul cast di raro e prezioso amalgama veglia la regia elegantissima di Tommaso Arnaldi, che sposa le idee di Antonio Mocciola e allo stesso tempo le inonda di luci e penombre, di bui e silenzi, di frasi sospese nell’aria, di musiche curatissime, e suoni persistenti e potenti (i tasti della macchina da scrivere, in scena come tutti gli elementi che occorrono, come i vestiti extra-large, a cura di Dorotea Ottaviani).

Si esce dalla sala con la consapevolezza che di questo tipo di “teatro letterario” c’è bisogno. La coerenza dell’autore – le cui tematiche sono note, coerenti ma allo stesso tempo ancora spiazzanti – e la vitalità irrequieta del regista Tommaso Arnadi sono un connubio vincente, e le voci di pietra (del padre) e di ghiaccio ferito (del figlio) sono quelle che restano. E che, forse, ancora ci appartengono.

Emil Caruso

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