“Mors tua”, una madre, un figlio e una scheggia impazzita

“Mors tua” lascia il detto a metà, presagendo un “Vita mea” che non sveliamo, essendo il finale dello spettacolo che Emilia Miscio ha portato in scena in anteprima di stagione al Teatro Petrolini di Roma. Il testo di Antonio Mocciola affronta il tema del rapporto morboso tra madre e figlio, in un ambiente piccolo-borghese in cui entrambi si muovono a stento: lei (Violetta Rogai) perché costretta su una sedia a rotelle, ex diva in vertiginoso declino, lui (Francesco Lippolis) per antichi impacci e complessi, ragazzo sempre in ritardo su ogni evoluzione dell’età. Tra i due vige un patto di ipocrita tolleranza, finché un terzo incomodo (Federica Pallozzi Lavorante) non fa saltare i meccanismi.

Morbosità, claustrofobia, ossessioni e nevrosi: il sadomasochismo familiare del testo è ben reso da cast e regia, sorretto dalla notevole presenza scenica della Rogai e dal buon supporto di Lippolis e Pallozzi Lavorante, entrambi molto in parte. Se qualche volta, specie nella voce un po’ monocorde del personaggio maschile, si avverte il bisogno di più ritmo (e, perché no, da una scelta musicale più graffiante), ci sono anche notevoli impennate di verismo, come in alcuni passaggi dello stesso Lippolis, sempre scalzo in scena e in una sequenza anche con un potente nudo integrale, e nelle ambigue espressioni della Pallozzi Lavorante. Notevole il melodrammatico finale della Rogai, il cui volto cangiante dipinge la scena suggellendo una regia lucida e asciutta, per un testo torbido e inquieto, come da preciso stile dell’autore.

“Mors tua” merita di essere rivisto e approfondito, offrendo numerosi, interessanti, spunti di riflessione.

Franco Rinaldi

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