“La retorica delle puttane”, ironia, filosofia e dramma
In una metafisica sala massaggi di periferia

Prendendo a prestito il titolo di un celebre libro di Ferrante Pallavicino (che fu la causa della sua condanna a morte per oscenità), Antonio Mocciola ambiente in uno squallido seminterrato di Napoli il suo nuovo lavoro drammaturgico, “La retorica della puttane”, affidato alla regia di Giorgio Gori, anche protagonista assieme a Maria Rosaria Virgili e Vittorio Brandi, in scena al Centro Teatro Spazio di San Giorgio a Cremano (Napoli).

Siamo in un centro massaggi, in cui due clienti si incrociano nello stesso momento, per un probabile errore negli appuntamenti. Uno, più giovane (Vittorio Brandi), è in una curiosa posizione a crocefisso, completamente nudo, alla mercé dello sguardo della massaggiatrice (Virgili), e di un cliente più adulto (Gori), che con l’arroganza dei soldi lo scavalca, inducendolo alla ritirata.

Da lì lo spettacolo ha un abbrivio di raffinato umorismo, spiccioli di filosofia negazionista (dai toni apocalittici, quasi sgalambriani), e schietta comicità napoletana. Ma poi il rapporto tra cliente e “prestatrice d’opera” si complica, e il ritorno del primo, misterioso cliente ingarbuglia la matassa, fino ad un finale sospeso. E la sala massaggi diventa, di colpo, territorio metafisico. Uno spazio irreale alla De Chirico, per dire.

Pur nella sua (forse eccessiva) brevità, il testo contiene interessanti elementi esistenziali, ed una giusta tensione drammatica. Il testo nasconde micce incandescenti, che ogni tanto affiorano in superficie, e la regia efficace e mobile di Gori sa valorizzarlo. E a tal proposito, apprezzabilissimo il doppio-impegno dell’attore, che recita del tutto nudo per tutta la durata dello spettacolo, quasi come uno smarrito Adamo in un paradiso molto, troppo terrestre. Gori sa gestire i toni della commedia e del dramma con tempi perfetti, senza mai perdere l’asse dell’equilibrio e anzi maturando voci sempre nuove e diverse, facendo intuire interessanti e inattesi sviluppi di carriera. Gli stessi che dimostra l’ottimo Vittorio Brandi, cui paradossalmente tocca il ruolo più insidioso, una sorta di maschera di pietra che parte umanissima (un nudo cristologico, con tratti di San Sebastiano, una vera e propria mortificazione pubblica davanti, in fondo, a due sconosciuti, con tanto di scacciata – dal famoso paradiso?), per finire da angelo vendicatore, senza un filo di pathos, comme il faut.

E poi, ultima ma non ultima, la straordinaria prova di Maria Rosaria Virgili, eccellente vestale di un rito erotico che diventa, invece, puro masochismo. Il territorio consolidato dell’attrice – il comico, la farsa, il grottesco – virano in un crescendo drammatico credibile, intenso eppure misurato. Un’icona inconsueta – la puttana triste – che la Virgili indossa con abilità, e straordinaria, lancinante umanità. E’ lei, pur (succintamente) vestita, la più nuda dei tre. Ed è questo l’ironico messaggio dell’autore.

A tal proposito, giova riflettere sulla questione del nudo: quello brevissimo di Brandi resta impresso come quello, lunghissimo, di Gori. Entrambi hanno senso, e raccontano. Nulla di erotico, anzi. C’è del mistico, e del goffo, in entrambi. Mocciola lo adopera ancora una volta con perizia, tanto da diventarne una cifra personalissima. Il trabocchetto del pudore è tutto per il pubblico. In scena si racconta altro, ed è quella la lettura – forse – giusta. L’uomo svuotato. Come ci si svuota in un centro-massaggi, forse. O come ti svuota la vita, con i suoi drammi, i suoi nodi irrisolti. Il corpo racconta, tutto qui. Il “problema” del nudo non riguardo chi lo fa, ma chi non sa leggerlo.

Nei suoi deliziosi difetti, e forse nella sua (voluta?) incompiutezza, sta l’essenza di uno spettacolo che turba, e smuove. Può crescere ancora, ma il primo vagito è un bellissimo richiamo al risveglio.

Emil Caruso

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